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Ma i Cani questo l’avevano sognato. In un giorno lontano, il sogno aveva preso forma dentro di loro. E i Cani erano riusciti nel loro intento. I Cani avevano avverato il loro sogno.

Come in un cartone animato, pensò Jenkins. Come nelle fantasie per bambini di un’epoca tanto, tanto lontana, che neppure lui conosceva se non per il ricordo di coloro che la ricordavano. Come la storia del Leone e dell’Agnello che riposavano insieme. Come un cartone animato di Walt Disney, solo che il cartone animato non aveva mai avuto un sapore diverso da quello della fiaba, perché era stato basato sulla filosofia umana.

Scricchiolando, la porta si aprì di qualche centimetro. Jenkins si voltò.

«Ciao, Joshua,» disse. «Ciao, Ichabod. Volete entrare? Ero seduto qui a pensare, ecco tutto.»

«Passavamo di qui,» disse Joshua, «E abbiamo visto una luce.»

«Stavo pensando alle luci,» disse Jenkins, annuendo, serenamente. «Stavo pensando alla notte di cinquemila anni fa. Jon Webster era venuto qui da Ginevra, era il primo uomo che veniva qui da molti, molti secoli. Ed era di sopra, a letto, e tutti i Cani stavano dormendo, e io ero qui in piedi, davanti alla finestra, e guardavo in direzione del fiume. E non c’erano luci. Non c’era neppure una luce. Solo un grande mare di tenebre. E io stavo in piedi, qui, ricordando il giorno in cui c’erano state delle luci e chiedendomi se ci sarebbero mai più state delle luci, in futuro.»

«Adesso ci sono delle luci,» disse Joshua, parlando con estrema dolcezza. «Ci sono delle luci in tutto il mondo, stanotte. Perfino nelle caverne e nelle tane.»

«Sì, lo so,» mormorò Jenkins. «È perfino meglio di quanto non fosse stato prima.»

Ichabod camminò pesantemente sul pavimento, dirigendosi verso lo scintillante corpo di robot che stava eretto in un angolo, allungò una mano e toccò la carne di metallo, quasi con tenerezza.

«I Cani sono stati molto buoni,» disse Jenkins, «A regalarmi quel corpo. Ma non avrebbero dovuto fare tanto. Con qualche piccola riparazione qua e là, il vecchio corpo è ancora buono.»

«L’abbiamo fatto perché ti vogliamo bene,» gli disse Joshua. «Era il minimo che i Cani potessero fare. Abbiamo cercato di fare delle altre cose per te, ma tu non ce l’hai mai permesso. Vorremmo tanto che tu ci lasciassi costruire una nuova casa, nuova fiammante, con tutti i ritrovati più moderni.»

Jenkins scosse il capo d’acciaio.

«Non servirebbe a niente, perché non potrei viverci. Vedi, questo posto è casa mia. È sempre stata la mia casa. Basterà che la teniate in ordine, con qualche riparazione ogni tanto, come avete fatto con il mio corpo, e io sarò felice.»

«Ma tu sei così solo, qui!»

«No, non sono solo,» disse Jenkins. «La casa è piena di gente.»

«Piena di gente?» domandò Joshua.

«Gente che conoscevo, un tempo,» spiegò Jenkins.

«Accidenti,» esclamò Ichabod. «Che corpo stupendo! Come mi piacerebbe provarlo.»

«Ichabod!» gridò Joshua. «Torna qui subito. Tieni giù le mani da quel corpo…»

«Lascia stare il piccolo,» disse Jenkins, con una sfumatura d’affetto. «Se viene qui una volta o l’altra, quando non sarò occupato…»

«No,» disse Joshua.

Un ramo strusciò contro la parete della casa e sfiorò con dita leggere la finestra. Una persiana tintinnò e il vento marciò sul tetto con piedi leggeri e danzanti.

«Sono felice che tu sia venuto qui,» disse Jenkins. «Volevo parlarti.»

Dondolò avanti e indietro, avanti e indietro sulla vecchia sedia a dondolo, e la sedia gracchiò cupamente.

«Io non potrò durare per sempre,» disse Jenkins. «Settemila anni sono lunghi. È un tempo più lungo di quanto non avessi il diritto di aspettarmi.»

«Con il nuovo corpo,» disse Joshua, «Potrai essere perfettamente in forma per un periodo tre volte più lungo.»

Jenkins scosse il capo.

«Ma io non sto pensando al corpo. Sto pensando al cervello. È meccanico, vedi, Joshua? È stato costruito bene, è stato costruito per durare molto tempo, ma non per sempre. Un giorno qualcosa si guasterà e il cervello non funzionerà più.»

La sedia a dondolo gracchiò nella stanza silenziosa.

«E quella sarà la morte,» disse Jenkins. «Quella sarà la mia fine. Ed è giusto così. È così che deve essere. Perché io non servo più. C’è stato un tempo in cui c’era bisogno di me.»

«Noi avremo sempre bisogno di te.» disse Joshua, dolcemente. «Non potremmo andare avanti senza di te.»

Ma Jenkins continuò a parlare, come se non l’avesse udito.

«Voglio parlarti dei webster. Sì, voglio parlarti di loro. Voglio che tu capisca.»

«Cercherò di capire,» disse Joshua.

«Voi Cani li chiamate webster, e va bene,» disse Jenkins. «Non importa come li chiamate, basta che sappiate chi sono.»

«A volte,» disse Joshua, «Tu li chiami uomini, a volte li chiami webster. Non capisco.»

«Erano uomini,» disse Jenkins, «E governavano la Terra. E c’era una loro famiglia che portava il nome di Webster. E sono stati i Webster a fare questa grande cosa, per voi.»

«Quale grande cosa?»

Jenkins fermò di colpo la sedia, e la tenne ferma.

«Dimentico spesso le cose,» borbottò. «Dimentico così facilmente. E così mi confondo.»

«Stavi parlando di una grande cosa che i webster hanno fatto per noi.»

«Eh,» disse Jenkins. «Sì, davvero, stavo dicendo questo. Sì, davvero. Voi dovete sorvegliarli. Dovete avere cura di loro e sorvegliarli. Soprattutto sorvegliarli.»

Ricominciò a dondolarsi avanti e indietro, avanti e indietro, e i pensieri si rincorsero nel suo cervello antico, pensieri intervallati dal gracidare della vecchia sedia a dondolo.

Per poco non l’hai fatto, si disse. Per poco non hai rovinato il sogno.

Ma ho ricordato in tempo. Sì, Jon Webster, mi sono trattenuto in tempo. Ho tenuto fede alla promessa, Jon Webster. Non ho tradito la tua fiducia. Sono sempre stato un servitore fedele, Jon Webster, e non ho tradito neppure adesso la tua fiducia.

Non ho detto a Joshua che un tempo i Cani erano animali domestici, gli animali domestici preferiti dall’uomo, e che sono stati gli uomini a innalzarli fino al punto che hanno raggiunto ora. Perché loro non devono mai sapere. Devono tenere eretta la loro testa. Devono continuare il loro lavoro. Le vecchie storie che si narravano di notte intorno al focolare non ci sono più, e non dovranno mai più ritornare.

Anche se io vorrei tanto parlare. Lo sa il Signore quanto vorrei parlare. Metterli in guardia dalle cose dalle quali devono stare in guardia. Dire loro che noi abbiamo sradicato le antiche idee dagli uomini delle caverne che abbiamo trovato in Europa e che abbiamo portato qui, tra noi. Spiegare come abbiamo fatto disimparare a quegli uomini le molte cose che essi sapevano. Come abbiamo liberato le loro menti dalle armi e dalle cose più pericolose delle armi, come abbiamo insegnato loro l’amore e la pace.

E dire loro che dobbiamo stare in guardia, temere il giorno in cui essi riprenderanno le cose perdute… l’antico modo umano di pensare.

«Ma avevi detto…» fece Joshua.

Jenkins agitò una mano.

«Non era niente, Joshua. Solo le chiacchiere vuote di un vecchio robot brontolone. A volte il mio cervello si confonde e allora dico cose che non voglio dire. Penso tanto al passato… e tu dici che il passato non c’è.»

Ichabod si accovacciò sul pavimento e guardò Jenkins.

«Che non ci sia è sicuro,» disse. «Abbiamo controllato i calcoli, per quaranta volte da domenica, e tutte le volte i fattori concordano. È tutto esatto. Non esiste nessun passato.»

«Non c’è spazio per il passato,» aggiunse Joshua. «Se tu viaggi a ritroso lungo la linea del tempo non trovi il passato, ma un altro mondo, un’altra parentesi di coscienza. Troveresti la stessa Terra, vedi, o almeno quasi la stessa. Gli stessi alberi, gli stessi fiumi, le stesse colline, ma non sarebbe più il mondo che conosciamo. Perché questo mondo ha vissuto una vita diversa, si è sviluppato in maniera diversa. Il secondo dietro di noi non è affatto il secondo dietro di noi, ma un altro secondo, una sezione del tempo totalmente separata e diversa. Noi viviamo sempre nello stesso secondo. Ci muoviamo entro la parentesi di quel secondo, quel minuscolo frammento di tempo che è stato assegnato al nostro mondo.»