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Ichabod annuì.

«So come devo fare, Jenkins.»

Nella voce di Joshua comparve un improvviso tremito di paura.

«Cosa succede, Jenkins? Che cosa vuoi fare?»

«Voglio andare dai Mutanti,» disse Jenkins, parlando con estrema lentezza. «Dopo tutti questi anni, andrò a chiedere il loro aiuto.»

L’ombra scivolò già dalla collina, silenziosa e sinuosa, evitando le radure della foresta dove i raggi della luna bagnavano la terra di chiarore d’argento. L’ombra scintillava al chiaro di luna… e non doveva farsi vedere. Non doveva rovinare la caccia delle altre che sarebbero seguite.

Perché ce ne sarebbero state altre. Non tutte insieme, non in una fiumana incontrollata, ma con un attento controllo, con un calcolo preciso. Poche per volta e disseminate in luoghi lontani, in modo che la vita di quel mondo d’incanto non si allarmasse.

Perché se si fosse allarmata, poi sarebbe venuta la fine.

L’ombra si rannicchiò torva nelle tenebre, appiattendosi al suolo, e sentì le emanazioni della notte con i suoi nervi tesi e vibranti. Separò dalla fiumana di sensazioni gli impulsi che già conosceva, catalogandoli con la sua mente acuta come la lama di un coltello, archiviandoli nella sua memoria, per servirsene eventualmente in futuro come punti di riferimento e di controllo.

E alcuni impulsi già li conosceva e alcuni erano misteri e altri potevano essere indovinati. Ma ce n’era uno che portava una sfumatura di orrore.

L’ombra si appiattì ancor più al suolo e tenne la testa orrenda appiattita anch’essa e chiuse la sua mente alle percezioni della notte pulsante e vibrante, concentrandosi sulla cosa che stava venendo su per la collina.

Erano in due, e i due erano diversi. Un ringhio sbocciò nella sua mente e le gorgogliò in gola e il suo corpo tenue e sottile si tese in qualcosa che era per metà anticipazione famelica, e per metà strisciante, angoscioso terrore alieno.

L’ombra si alzò dal suolo, tenendosi curva e appiattita, e fluì sinuosamente giù per la collina, muovendosi in modo da tagliare la strada alle due creature che stavano salendo.

Jenkins era di nuovo giovane, giovane e forte e veloce… veloce di corpo e di mente. Veloce nel camminare per le colline battute dal vento e inondate dai raggi d’argento della luna. Veloce nell’udire il mormorio delle foglie e il cinguettio sonnolento degli uccelli… e molte altre cose ancora.

Sì, molte altre cose ancora, ammise tra sé.

Quel corpo era un gioiello. Un maglio non avrebbe potuto scalfirlo, e la ruggine non l’avrebbe mai attaccato. Ma non era tutto.

Non avrei mai immaginato che un corpo potesse rendermi così diverso. Non mi ero mai reso conto di quanto fosse in realtà vecchio e logoro e consunto e limitato il mio vecchio corpo. Non era gran cosa fin dall’inizio, anche se allora, nei giorni in cui l’hanno fatto, era il meglio che si potesse ottenere. La meccanica è meravigliosa, certo, con tutte le cose che si possono realizzare. Dei veri prodigi.

Erano stati i robot, naturalmente. I robot selvaggi. I Cani avevano chiesto a loro di fare il nuovo corpo. I Cani non s’immischiavano spesso negli affari dei robot. Andavano d’accordo, certo, vivevano da buoni vicini e tutto il resto… ma andavano d’accordo perché non s’immischiavano gli uni nelle faccende degli altri, perché non interferivano, perché seguivano la regola aurea del vivi e lascia vivere, perché né i robot né i Cani amavano ficcare il naso nelle faccende altrui.

Un coniglio si stava muovendo nella tana… e Jenkins lo sentiva. Un procione stava facendo una passeggiata di mezzanotte al chiaro di luna, e Jenkins sentiva anche lui… sentiva la curiosità astuta e penetrante che pervadeva il cervello del procione, dietro gli occhietti che stavano guardando lui, Jenkins, dietro le fronde di una macchia di nocciuoli. E un poco più lontano, alla sua sinistra, rannicchiato sotto un albero, un orso stava dormendo e mentre dormiva sognava… il sogno di un orso ghiotto, pieno di miele selvatico e di pesci pescati in un torrente cristallino con un gesto veloce della zampa, pieno di formiche leccate di sotto un pietrone rovesciato, per completare la festa.

Ed era sorprendente… eppure era naturale. Naturale come alzare un piede per camminare, naturale come l’udito. Ma non si trattava di udito e di vista. Non si trattava neppure d’immaginazione. Perché Jenkins sapeva con certezza fredda e lucida e sicura, sapeva del coniglio nella tana e del procione nella macchia di nocciuoli e dell’orso che sognava sogni proibiti, dormendo sotto un albero amico.

E questo, pensò, è il tipo di corpo che i robot selvaggi possiedono… perché, certamente, se ne hanno potuto fabbricare uno per me, ne potranno fabbricare quanti ne vogliono anche per loro.

Anche loro hanno fatto molta strada in settemila anni, anche loro hanno percorso un lungo cammino, come i Cani, dopo l’esodo degli uomini. Ma noi non abbiamo prestato alcuna attenzione ai robot, li abbiamo chiamati selvaggi perché erano liberi e indipendenti, non abbiamo dedicato attenzione al loro lavoro, perché così doveva essere. I robot sono andati per la loro strada e i Cani sono andati per la loro strada e nessuno dei due ha chiesto all’altro cosa stesse facendo, non è stato curioso di sapere quale fosse l’obiettivo alla fine della strada, non è stato curioso di sapere quale fosse il cammino che l’altro stava seguendo. Mentre i robot avevano costruito delle enormi astronavi che erano partite veloci verso le stelle, mentre avevano costruito nuovi corpi perfetti, mentre avevano lavorato con la matematica e con la meccanica, i Cani avevano lavorato con gli animali, avevano forgiato una fratellanza delle creature ch’erano state selvagge e ch’erano state cacciate e uccise quando il sole aveva illuminato i lunghi e brevi giorni dell’Uomo… avevano ascoltato le ombre e avevano cercato di frugare tra le pieghe profonde del tempo, per scoprire infine che il tempo non esisteva.

E certamente, se i robot e i cani avevano percorso tanta strada, i Mutanti erano andati ancora più lontano. E i Mutanti mi ascolteranno, si disse Jenkins, mi dovranno ascoltare, perché sto portando loro un problema che spetta a loro risolvere. Perché i Mutanti sono uomini… malgrado il loro comportamento, malgrado il loro modo di pensare, sono i figli degli uomini. Non possono più conservare rancore, ormai, perché il nome dell’Uomo è polvere che vola portata dal vento, è il fruscio delle foglie in un giorno di estate… e niente di più.

Inoltre, non li ho disturbati per settemila anni… non che li abbia mai disturbati. Joe era mio amico, o almeno si era avvicinato ad essermi amico più di quanto un Mutante si fosse mai avvicinato a essere l’amico di qualcuno. Parlava con me, mentre non avrebbe mai parlato con un uomo. Loro mi ascolteranno… mi diranno quel che devo fare. E non rideranno di me.

Perché non c’è niente da ridere, in questa faccenda. Si tratta soltanto di un arco e di una freccia, ma non c’è niente, niente, niente da ridere in questo. Forse avrebbero riso un tempo, ma la storia toglie ogni motivo di risa da molte, molte cose. Se la freccia è un motivo d’ilarità, devono anche esserlo le bombe atomiche, le nubi di polvere mortale e inquinata che scendono a inghiottire intere città, i missili urlanti che descrivono il loro arco mortale nel cielo e cadono a diecimila chilometri di distanza e uccidono un milione di persone.

Anche se adesso non c’è neppure un milione di persone. Solo poche centinaia di persone, che vivono nelle case costruite per loro un tempo dai Cani, perché allora i Cani ancora sapevano cos’erano gli esseri umani, ricordavano gli uomini come degli dei. Consideravano gli uomini come degli dei e narravano le antiche storie davanti al fuoco in una sera d’inverno e lavoravano alacremente e sognavano e si preparavano al giorno in cui l’Uomo sarebbe ritornato e avrebbe accarezzato la loro testa e avrebbe detto, «Ben fatto, servo buono e fedele.»