E questo non era giusto, pensò Jenkins camminando a lunghi passi tra le colline bagnate di luna, e i raggi della luna traevano scintille di luce viva dal suo nuovo corpo stupendo. Questo non era affatto giusto. Perché gli uomini non meritavano questa adorazione, perché gli uomini non meritavano di essere divinizzati. Lo sa il Signore quanto li ho amati, io. Li amo ancora, se è per questo… ma non perché essi sono uomini, ma grazie al ricordo di pochi uomini tra molti.
Non era giusto che i Cani costruissero per gli Uomini. perché stavano facendo meglio di quanto l’Uomo non avesse mai fatto. Non era giusto che i Cani si sacrificassero tanto, sognando solo, come ricompensa, una carezza del padrone, una grattatina dietro l’orecchio, una parola gentile degli dei ritornati. E così io ho spazzato via il ricordo degli uomini, ed è stato un lavoro lungo e lento e faticoso. Per anni e anni, anni lenti e senza fine, ho tolto ai cani le leggende, e ho confuso i loro ricordi nella nebbia, e ora essi chiamano gli uomini webster e pensano che siano webster e non sospettano altro.
Spesso mi sono chiesto se ho agito bene, se ho fatto la cosa giusta. Mi sono sentito un traditore e ho trascorso notti amare quando il mondo dormiva e c’era un gran buio intorno e io sedevo nella sedia a dondolo e ascoltavo il vento soffiare lamentoso nella cappa del focolare, sul tetto e tra le fronde degli alberi. Perché forse io non avevo il diritto di farlo. Forse era una cosa che io non avrei dovuto fare. Era una cosa che ai Webster non sarebbe piaciuta. Perché è così che li amavo, perché era tanta l’autorità che avevano su di me, che hanno ancora su di me… tanta che ancora adesso, dopo mille e mille e mille anni, posso fare una cosa e poi starmene angosciato, pieno di tormento, a chiedermi se questo ai Webster sarebbe piaciuto, se non mi avrebbero biasimato per ciò che avevo fatto.
Ma ora, ora so di avere agito bene. Ora so che avevo ragione, facendo quello che ho fatto. L’arco e la freccia ne sono la prova migliore. Un tempo io pensavo che l’Uomo fosse partito sulla strada sbagliata, credevo che in un momento dimenticato di un luogo dimenticato di un passato dimenticato, nell’era oscura e selvaggia che era stata la culla dell’umanità, l’Uomo fosse partito con il piede sbagliato, avesse preso la direzione errata. Ma ora capisco di essermi sbagliato, io, non l’Uomo un tempo. C’è una strada e una strada sola che l’Uomo può percorrere… la strada dell’arco e della freccia.
Perché ho tentato, lo sa il Signore come ho tentato!
Quando abbiamo trovato i dispersi, quando li abbiamo radunati e portati a casa, alla Casa dei Webster, io ho tolto loro le armi, non solo dalle loro mani ma anche dalle loro menti. Ho riscritto tutta la letteratura che poteva essere riscritta, e ho bruciato il resto. Sono stato un censore e l’ho fatto per il loro bene. Ho insegnato loro di nuovo a leggere e a cantare e a parlare e a pensare. Ho insegnato loro una nuova maniera di farlo, la maniera giusta di farlo. E nei libri non c’era più alcuna traccia di guerra e di armi, non c’era più alcuna traccia di odio e di storia, perché la storia è odio… ho tolto ogni traccia di battaglie e di imprese eroiche, ho soffocato anche l’ultimo squillo di trombe gloriose.
Ma è stato tempo sprecato. Perché un uomo inventerà sempre un arco e una freccia, malgrado tutto quello che si possa fare, malgrado tutte le cose che si possano tentare.
Era disceso giù per la lunga collina e aveva attraversato il torrente che scendeva ansioso verso il fiume, e ora stava salendo di nuovo, stava salendo nelle tenebre della scoscesa collina rocciosa.
Si udivano dei leggeri fruscii e il suo nuovo corpo gli diceva che erano dei topi, topi che scalpicciavano frusciando nelle gallerie che avevano scavato tra l’erba alta. E per un istante avvertì la piccola felicità che si sprigionava dai topi intenti a correre e a giocare, i piccoli pensieri liberi e semplici dei topi ebbri di gioia.
Una donnola si fermò, acquattandosi per un momento sul tronco di un albero caduto, e nella sua mente c’era il male, il male che si associava al pensiero dei topi, il male del ricordo di giorni antichi e passati, quando le donnole davano la caccia ai topi e li mangiavano e i topi fuggivano e le donnole riuscivano a prenderli, astute e silenziose e veloci. Sete di sangue e paura, paura di ciò che i Cani avrebbero potuto farle se avesse ucciso un topo, paura dei cento occhi che guardavano nella notte, che sorvegliavano il mondo intero per impedire le uccisioni che un tempo lo avevano insanguinato.
Ma un uomo aveva ucciso. Una donnola non aveva il coraggio di uccidere, non osava, e un uomo aveva ucciso. Senza intenzione, forse, senza malizia. Ma aveva ucciso. E i Canoni dicevano che non si doveva, mai, prendere la vita d’altri.
Negli anni che erano passati, altri avevano ucciso ed erano stati puniti. E anche l’uomo doveva essere punito. Ma la punizione non sarebbe stata sufficiente. La punizione, da sola, non avrebbe dato la risposta. La risposta doveva occuparsi non di un uomo solo, ma di tutti gli uomini, dell’intera razza. Perché quello che un uomo aveva fatto, avrebbero potuto farlo anche gli altri. E non solo avrebbero potuto farlo, ma l’avrebbero fatto, erano destinati a farlo… perché erano uomini, e gli uomini avevano ucciso prima e avrebbero ucciso ancora.
Il castello dei Mutanti si stagliava nero contro il cielo, così nero e torvo da scintillare, quasi, al chiaro di luna. Non ne usciva alcuna luce, e questo non era strano, perché dal castello dei Mutanti non era mai uscito un solo raggio di luce. Né, per quanto era dato sapere, la porta si era mai aperta sul mondo esterno. I Mutanti avevano costruito i castelli, su tutta la Terra, e vi erano entrati, e questa era stata la fine. I Mutanti si erano intromessi nelle cose degli uomini, avevano combattuto una specie di guerra beffarda contro gli uomini, e quando gli uomini se ne erano andati, anche i Mutanti se ne erano andati.
Jenkins arrivò ai piedi dell’ampia scala di pietra che conduceva alla porta del castello, e si fermò. Con la testa rovesciata indietro, guardò l’edificio che torreggiava titanico sopra di lui.
Immagino che Joe sia morto, si disse. Joe aveva una vita lunga, come tutti i Mutanti, ma non era immortale. Non avrebbe vissuto per sempre. E mi sembrerà strano incontrare un altro Mutante e sapere che non si tratta di Joe.
Cominciò a salire la grande scalinata, muovendosi con estrema lentezza, teso in ogni fibra del suo corpo prodigioso, attendendosi da un momento all’altro di captare il primo segno di beffarda ironia che sarebbe inevitabilmente disceso sopra di lui dalla costruzione immensa.
Ma non accadde nulla.
Jenkins salì gli ampi scalini e si fermò davanti alla porta e cercò qualche mezzo da usare per fare sapere ai Mutanti che lui era arrivato.
Ma non c’era niente. Non c’era un campanello e non c’era un cicalino e non c’era neppure un battente. La porta era grande e massiccia, semplice e piana, con un saliscendi dei più comuni. E questo era tutto.
Esitante, Jenkins alzò la mano e batté la porta, e batté di nuovo, e poi aspettò. Non ci fu risposta. La porta rimase muta e immobile.
Bussò di nuovo alla porta, questa volta con forza maggiore. E non ebbe risposta.
Lentamente, cautamente, sollevò la mano e la posò sul saliscendi, premette col pollice. Il saliscendi si abbassò e la porta si aprì e Jenkins varcò la soglia, entrando nel castello.
«Tu hai il cervello bacato,» disse Lupo. «Io li costringerei a venire a prendermi. Se ci riescono. Li farei correre come non hanno mai corso in vita loro. Se mi vogliono, che ce la mettano tutta. Ecco cosa farei.»
Peter scosse il capo.
«Forse tu faresti così, Lupo, e forse per te sarebbe giusto. Ma per me no. I webster non fuggono mai.»
«Come fai a saperlo?» domandò il lupo, niente affatto scosso dalla dichiarazione. «Stai facendo delle chiacchiere senza senso. Nessun webster è stato costretto a fuggire, prima d’oggi, e se fino a oggi nessun webster è stato costretto a fuggire, come fai a sapere che non…»