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«Oh, sta’ zitto,» disse Peter.

Salirono in silenzio per il sentiero sassoso che portava alla cima della collina.

«C’è qualcosa che ci segue,» disse Lupo.

«Ti lasci trasportare dall’immaginazione,» disse Peter. «Che cosa potrebbe seguirci?»

«Non so, ma…»

«Senti qualche odore?»

«Be’, no.»

«Senti qualcosa, o vedi qualcosa?»

«No, non vedo e non sento niente, ma…»

«Allora non c’è niente che ci segue,» dichiarò con sicurezza Peter. «Non è più il tempo in cui si doveva temere che qualcosa ti seguisse!»

Il chiaro di luna filtrava tra le cime degli alberi, bagnava le fronde, trasformando la foresta in un regno incantato e sfumato, dipinto di nero e d’argento. Dal fiume che scorreva in fondo alla valle giungeva lo starnazzare lontano e soffocato di anatre rissose, prese da chissà quale disputa di mezzanotte. Una brezza dolce e leggera sfiorava il fianco della collina, e portava con sé un po’ della nebbia del fiume.

La corda dell’arco di Peter si impigliò in un cespuglio e Peter si fermò per liberarla. Alcune delle frecce che portava con sé gli caddero di mano, e lui dovette chinarsi a raccoglierle.

«Faresti meglio a trovare qualche altro sistema per portare quegli aggeggi,» grugnì Lupo. «La corda si impiglia dappertutto e quegli stecchi ti cadono e…»

«Ci ho pensato,» gli disse Peter, con calma. «Forse la soluzione sarebbe una specie di sacca da appendermi in spalla.»

Continuarono a salire la collina.

«Che cosa intendi fare quando avrai raggiunto la Casa dei Webster?» domandò Lupo.

«Vedrò Jenkins,» disse Peter. «Gli dirò quello che ho fatto.»

«Ghianda gliel’avrà già detto.»

«Ma forse gliel’avrà detto male. Si sarà spiegato nel modo sbagliato. Ghianda era molto emozionato.»

«Non era solo emozionato,» disse Lupo. «È anche stupido.»

Attraversarono una chiazza argentea di chiaro di luna, e ripresero a salire per il sentiero immerso nell’ombra.

«Non mi sento tranquillo,» disse Lupo. «Comincio a innervosirmi. Voglio tornare indietro. È una pazzia quella che stai facendo. Io ti ho accompagnato fin qui, ma…»

«Torna indietro, allora,» disse Peter, in tono sferzante. «Io non sono nervoso. Io…»

Si girò di scatto, e gli si rizzarono i capelli.

Perché c’era qualcosa d’anormale… qualcosa nell’aria che respirava, qualcosa nella sua mente… una sensazione allucinante e orribile di pericolo e, ancor più che di pericolo, un atroce ribrezzo, un disgusto sconvolgente, che affondava gli artigli nelle sue spalle, che strisciava lungo la sua schiena con milioni di piccoli piedi pungenti.

«Lupo!» gridò. «Lupo!»

Un cespuglio si agitava violentemente lungo il sentiero e Peter si mise a correre, ripercorrendo la strada dalla quale era passato pochi istanti prima. Si gettò dietro un folto cespuglio, si fermò e alzò il suo arco, e con un solo gesto prese una freccia e la incoccò e tese la corda.

Lupo era disteso al suolo, e il suo corpo era per metà nell’ombra e per metà immerso nel chiaro di luna. Le sue labbra erano tese in una smorfia orrenda, le zanne erano scoperte. Un zampa si muoveva ancora debolmente, mostrando gli artigli.

Sopra di lui era acquattata una forma. Una forma… niente altro che una forma. Una forma che sbavava e ringhiava, un torrente di suoni rabbiosi che si ripercuotevano laceranti nel cervello di Peter. Il ramo di un albero si mosse, per una folata di vento, e i raggi della luna fecero capolino, e Peter vide il contorno del viso… un contorno vago e sfumato, simile al segno tracciato dal gesso su una lavagna e poi cancellato per metà. Un viso scheletrico, quasi un teschio, con una bocca bavosa e gli occhi obliqui e orecchie dalle quali spuntavano orridi ciuffi di tentacoli brulicanti come vermi viscidi.

La corda dell’arco vibrò e la freccia colpì il viso orrendo… colpì il viso e vi affondò e lo attraversò e cadde al suolo. E il viso rimase com’era, ringhiante e bavoso, illeso.

Peter incoccò un’altra freccia e tirò, tirò finché la corda non fu tesa fino all’orecchio. Una freccia spinta dalla forza vibrante dell’asta di noce ben stagionata… spinta dall’odio e dalla paura e dal ribrezzo dell’uomo che aveva teso la corda.

La freccia colpì la faccia orrenda, i lineamenti confusi e informi, rallentò il suo volo e tremò, e poi cadde.

Un’altra freccia e poi di nuovo la corda venne tesa. Con maggiore forza ancora, questa volta. Con maggiore forza, per avere maggiore forza, per uccidere la cosa che non voleva morire quando una freccia la colpiva. Una cosa che rallentava soltanto il volo di una freccia e la faceva tremare prima che la freccia l’attraversasse e si perdesse al suolo.

Tirò e tirò e tirò con tutte le sue forze. E poi la cosa accadde.

La corda dell’arco si ruppe.

Per un istante, Peter rimase là fermo, con l’inutile arco in una mano, l’inutile freccia nell’altra mano. Rimase diritto e guardò attraverso il breve spazio che lo separava dall’orrore d’ombra che stava acquattato sinistro sul corpo grigio del lupo.

E in quel momento Peter non conobbe la paura. Non conobbe la paura, benché l’arma non servisse più. Provò solo una vampata di collera feroce, una collera che scosse tutto il suo essere, mentre una voce gli martellava la mente ripetendo all’infinito una sola parola:

UCCIDI… UCCIDI… UCCIDI…

Gettò via l’arco e fece un passo avanti, con le braccia sui fianchi e le mani racchiuse, e le dita piegate come se fossero state artigli.

L’ombra indietreggiò… indietreggiò presa da un’improvvisa ondata di paura che le inondò la mente… un’ondata di paura e di orrore per l’odio fiammeggiante che la percuoteva, l’odio che veniva dalla creatura che le avanzava contro. Un odio che possedeva e tormentava, un odio terribile e mortale. La creatura aveva già conosciuto la paura e l’orrore… la paura e l’orrore e anche un’inquietante rassegnazione… ma questa era una cosa nuova. Questa era una sferzata di tormento che le martoriava il cervello, che la colpiva con furia insopportabile.

Era l’odio.

L’ombra cominciò a gemere e a singhiozzare, dentro di sé… cominciò a gemere e a singhiozzare e a soffiare rabbiosa, e indietreggiò, indietreggiò lentamente mentre cercava freneticamente nella mente annebbiata i simboli della fuga.

La sala era vuota… era vuota e antica e cava. Una sala che afferrava con dita adunche di silenzio il suono della porta cigolante, e lo scagliava lontano, verso distanze soffocate, per poi farlo ritornare vibrante di mille eco strane e aliene. Una sala gravida della polvere dell’oblio, colma del cupo silenzio pensoso di secoli senza scopo.

Jenkins si fermò, tenendo ancora la mano sul saliscendi, si fermò immobile e usò tutti i sensi penetranti della macchina perfetta ch’era il suo corpo per frugare negli angoli riposti e nelle alcove d’ombra silenziosa. E non trovò niente, all’infuori del silenzio e della polvere e delle tenebre fitte. Non trovò niente, niente che potesse indicare almeno che, nei giorni e negli anni e nei secoli ch’erano trascorsi, quella sala avesse contenuto qualcosa all’infuori del silenzio e della polvere e delle tenebre fitte. Non si intuiva neppure il più debole tremore del residuo d’un pensiero remoto, non si vedevano orme sbiadite sul pavimento, né l’impronta d’un dito sulla polvere del tavolo.

Una vecchia canzone, una canzone incredibilmente antica… una canzone ch’era stata antica già quando lui era uscito dalla fucina che l’aveva forgiato, uscì strisciando da qualche oscuro angolo segreto della sua mente. E Jenkins si sorprese di trovare ancora là quel ricordo, si sorprese perfino di averlo conosciuto un tempo… e ricordando, fu atterrito e sconfortato a un tempo. Sconfortato e atterrito per il vortice profondo di secoli che il ricordo aveva evocato, sconsolato al pensiero delle case bianche e accoglienti che si erano erette sulle cime di un milione di colline, sconsolato al pensiero degli uomini che avevano amato la loro terra e gli alberi e i torrenti, e avevano camminato sulle zolle umide con il passo calmo e sicuro dei padroni.