Perché Jenkins avvertiva la disperata frenesia nella mente della creatura d’ombra, la frenesia del terrore più abietto provocato dall’odio dell’uomo che avanzava verso la chiazza indistinta e viva, che sbavava e soffiava e ringhiava nel buio. Il terrore più abietto e la necessità più disperata… la necessità di trovare qualcosa, di ricordare qualcosa.
L’uomo era ormai vicinissimo all’ombra, avanzava camminando sicuro ed eretto… un uomo dal corpo fragile e dai pugni ridicoli… e dal coraggio smisurato. Coraggio, pensò Jenkins, tanto coraggio da sfidare perfino l’inferno, da scendere nel pozzo delle anime e attraversare il regno delle tenebre per gridare una parolaccia di scherno allo stesso custode dei dannati.
E poi la creatura d’ombra trovò quel che cercava… seppe qual era la cosa da fare. Jenkins avvertì l’ondata di sollievo che pervase il corpo della creatura, udì la cosa, in parte parole, in parte simboli, in parte pensiero, ch’essa eseguì. Come una formula magica, come un rito propiziatorio, come un incantesimo, ma solo in parte. Un esercizio mentale, un pensiero che prendeva possesso del corpo, di ogni fibra del corpo… questa definizione era più vicina alla verità.
Perché non si trattava di un vuoto incantesimo, ma di qualcosa di più. Era qualcosa che funzionava.
E funzionò.
La creatura svanì. Svanì e se ne fu andata… fuori del mondo.
Non c’era più alcun segno della sua esistenza, non c’era una sola vibrazione del suo essere. Come se essa non fosse mai esistita.
E la cosa che aveva detto, la cosa che aveva pensato? Era così, ricordava. Era così…
Jenkins si trattenne in tempo. La cosa era impressa nel suo cervello e lui sapeva, conosceva le parole e il pensiero e l’intonazione esatta… ma non doveva usarla, doveva dimenticarla, doveva tenerla nascosta, celata.
Perché la cosa aveva funzionato sull’ombra. E avrebbe funzionato anche su di lui. Lo sapeva, che avrebbe funzionato.
L’uomo si era voltato e ora pareva confuso, inerte, le braccia gli penzolavano lungo i fianchi, e i suoi occhi guardavano Jenkins, incerti.
Le sue labbra si mossero, nella bianca macchia confusa del viso.
«Tu… tu…»
«Io sono Jenkins,» gli disse Jenkins. «Questo è il mio nuovo corpo.»
«C’era qualcosa, qui» disse Peter.
«Era un’ombra,» disse Jenkins. «Joshua mi ha detto che un’ombra era riuscita a passare, era venuta qui.»
«Ha ucciso Lupo,» disse Peter.
Jenkins annuì.
«Sì, ha ucciso Lupo. E ha ucciso molti altri. Era la creatura responsabile di tutte quelle uccisioni.»
«E io l’ho uccisa,» disse Peter. «Io l’ho uccisa… o l’ho scacciata… oppure…»
«L’hai spaventata, l’hai costretta a fuggire,» disse Jenkins. «Tu eri più forte di lei. Aveva paura di te. L’hai spaventata a tal punto, che essa è ritornata al mondo dal quale è venuta.»
«Avrei potuto ucciderla,» si vantò Peter. «Ma la corda si è spezzata…»
«La prossima volta,» disse Jenkins, a bassa voce. «Dovrai usare una corda più forte. Ti mostrerò come si deve fare. E una punta d’acciaio per la tua freccia…»
«Per la mia… come hai detto?»
«Freccia. Il bastone da lancio si chiama freccia. Il bastone e la corda che ti servono per lanciare la freccia si chiamano con un nome solo, arco. Arco e frecce. Non dimenticarlo.»
Peter abbassò il capo e curvò le spalle.
«Allora non si tratta di una cosa nuova. È già stata fatta in passato. Non sono stato il primo?»
Jenkins scosse il capo.
«No, tu non sei stato il primo.»
Jenkins camminò sull’erba e si avvicinò a Peter e gli posò la mano sulla spalla.
«Torniamo a casa insieme, Peter.»
Peter scosse il capo.
«No. Starò qui insieme a Lupo, finché non spunterà l’alba. E poi chiamerò i suoi amici e lo seppelliremo.»
Sollevò il capo e guardò Jenkins in viso.
«Lupo era mio amico. Un mio grande amico, Jenkins.»
«Lo so. Capisco,» disse Jenkins. «Ma quando ci vedremo?»
«Oh, presto,» disse Peter. «Verrò alla Colazione all’Aperto. La grande Colazione all’Aperto dei Webster. Ci sarà tra una settimana, se non sbaglio.»
«È proprio così,» disse Jenkins, parlando molto lentamente, e riflettendo. «È proprio così. E noi ci vedremo là.»
Si voltò e ricominciò lentamente a salire per la collina.
Peter sedette sull’erba, accanto al cadavere del lupo, aspettando l’aurora. Un paio di volte si portò la mano alla guancia, per asciugarla.
Erano seduti in semicerchio davanti a Jenkins e ascoltavano attenti ed eccitati le sue parole.
«Adesso dovete fare molta attenzione,» disse Jenkins. «È molto importante. Dovete fare attenzione e concentrarvi bene e dovete stringere molto forte le cose che avete con voi… i cestini della colazione e gli archi e le frecce e le altre cose.»
Una delle ragazze fece una risatina felice.
«È un nuovo gioco, Jenkins?»
«Sì,» disse Jenkins. «Una specie. Ma penso che sia proprio come hai detto tu… un nuovo gioco. E molto emozionante. Molto, molto emozionante.»
Qualcuno disse:
«Jenkins riesce sempre a trovare un nuovo gioco per la Colazione dei Webster!»
«E adesso,» disse Jenkins, «Dovete fare attenzione. Dovete guardarmi e cercare di indovinare la cosa che sto pensando…»
«È un indovinello,» squittì la ragazza che aveva riso prima. «Io adoro gli indovinelli.»
Jenkins piegò le sue labbra meccaniche in un sorriso.
«Hai ragione,» le disse. «È proprio quello che hai detto… un indovinello. E adesso, se volete fare tutti attenzione e starmi a guardare…»
«Io voglio provare l’arco e le frecce,» disse uno degli uomini. «Quando avremo finito il gioco potremo provarli, vero, Jenkins?»
«Sì,» disse Jenkins, pazientemente. «Quando il gioco sarà finito potrete provarli.»
Chiuse gli occhi e protese la propria mente per raggiungerli tutti, per distinguere ciascuno come individuo singolo, con quel suo nuovo senso così prodigioso. Avvertì l’ansiosa aspettativa delle menti che si tendevano, a loro volta, verso la sua, avvertì le piccole dita protese di pensiero che sfioravano un po’ impacciate il suo cervello.
«Concentratevi,» disse Jenkins. «Di più, di più. Sforzatevi!»
Un brivido attraversò la sua mente, e Jenkins lo represse con una vaga irritazione. Non era ipnotismo… e neppure telepatia, ma era il meglio che lui poteva fare. Li attirava a sé, li riuniva, fondeva le loro menti con la sua… ed era tutto un gioco.
Lentamente, prudentemente, portò alla superficie della sua mente il simbolo nascosto… le parole, il pensiero e la giusta inflessione. Facilmente, anche se non l’aveva preparato prima, portò tutto questo alla superficie della sua mente, prima le parole, poi il pensiero e poi l’inflessione, metodicamente, come uno parlerebbe a un bambino, cercando di insegnare il tono esatto, il modo di muovere le labbra, il modo di muovere la lingua.
Lasciò che il simbolo si fermasse per un momento alla superficie del suo cervello, e aspettò che le altre menti toccassero la sua, aspettò che le invisibili dita di pensiero si posassero sulla cosa nascosta che era venuta alla luce. E poi pensò il simbolo ad alta voce, come aveva fatto l’ombra.
E non accadde niente. Niente di niente. Non si udì uno scatto rivelatore nel suo cervello. Non provò alcuna sensazione di caduta. Non ebbe neppure un vago senso di vertigine. Non provò la minima sensazione.
Così lui aveva fallito. Così il suo piano era finito. Così il gioco era terminato.
Aprì gli occhi e le pendici verdi delle colline erano uguali, il prato era uguale, il cielo era uguale. Il sole splendeva ancora e l’azzurro del cielo era immacolato.