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Sedette sull’erba, rigidamente, in silenzio, e sentì che gli altri lo stavano guardando.

Tutto era come era stato prima.

Tranne che…

Cera una margherita là dove prima una macchia di grandi fiori scarlatti aveva mandato il suo profumo dolce nell’aria. Accanto a lui il vento gentile cullava un fiorrancio che non c’era stato quando Jenkins aveva chiuso gli occhi.

«È tutto qui?» domandò la ragazza che aveva riso felice, all’inizio del gioco, chiaramente delusa.

«È tutto qui,» disse Jenkins.

«Ora possiamo provare l’arco e le frecce?» domandò uno dei ragazzi.

«Sì,» disse Jenkins. «Ma dovete stare attenti. Non tiratevi le frecce contro. Le frecce sono pericolose. Peter vi mostrerà come dovete fare.»

«Possiamo aprire i cestini della colazione,» disse una delle donne «Tu hai portato un cestino, Jenkins?»

«Sì,» disse Jenkins. «Ce l’ha Esther. L’ha tenuto lei, quando abbiamo fatto il gioco.»

«Che meraviglia,» disse la donna. «Tutti gli anni tu ci fai una sorpresa, con le cose che porti.»

E quest’anno sarà una vera sorpresa, si disse Jenkins. Sarà una vera sorpresa trovare i pacchetti di sementi, tutti accuratamente catalogati ed etichettati.

Perché noi avremo bisogno di semi, pensò. Semi, per piantare nuovi giardini e seminare nuovi campi… per coltivare il nostro cibo. E avremo bisogno degli archi e delle frecce per ottenere della carne. E avremo bisogno di arpioni e di ami e di lenze per pescare.

Adesso cominciava a distinguere tante altre piccole differenze. Il modo in cui un albero si chinava ai margini del prato. E una nuova ansa del fiume, in basso, lontano.

Jenkins restò seduto in silenzio al sole, ascoltando le grida dei ragazzi e degli uomini che provavano gli archi e le frecce, ascoltando l’allegro chiacchiericcio delle donne che stendevano le tovaglie e aprivano i cestini della colazione.

Dovrò dirglielo presto, si disse. Dovrò avvertirli di non sprecare il cibo… di non mangiarlo tutto in una sola volta. Perché avremo bisogno di quel cibo per resistere un giorno o due, per superare il primo momento, finché non avremo trovato radici da scavare e pesci da pescare e frutta da raccogliere.

Sì, tra poco dovrò chiamarli tutti intorno a me, e dar loro la notizia. Dire loro che sono soli, che devono cavarsela da soli. Spiegare loro il perché di tutto questo. Avvertirli che possono fare quello che vogliono, prendere quello che vogliono, inventare quello che vogliono. Perché questo è un nuovo mondo, un mondo vergine, un mondo che è come un frutto da cogliere.

E dovrò metterli in guardia dalle ombre.

Benché questa sia la cosa meno importante. L’Uomo ha un modo tutto particolare… un modo cattivo e deciso… di affrontare le cose che gli sbarrano la strada. Non ha importanza di che cosa si tratti, l’Uomo saprà sempre affrontarla nella maniera più efficace, nella sua maniera.

Jenkins sospirò.

Che il Signore aiuti le ombre, si disse.

ANNOTAZIONI SULL’OTTAVO RACCONTO

Esistono fondati motivi per ritenere che l’ottavo e ultimo racconto sia apocrifo, una manipolazione dell’antica leggenda aggiunta in epoche assai più recenti da qualche narratore desideroso di conquistare l’acclamazione del pubblico.

Strutturalmente si tratta di una storia accettabile, ma l’elaborazione e la fraseologia non sono certo all’altezza dell’abilità narrativa che si può ritrovare nelle altre sette. C’è anche da notare che si tratta troppo evidentemente di una storia. C’è troppa abilità nella raccolta del materiale, nella ripresa dei diversi motivi dell’intera leggenda, nel modo in cui vengono assortiti gli elementi lasciati in sospeso o in ombra nel corso degli altri racconti. Si tratta chiaramente di una costruzione artificiale, e se possiamo lodare l’abilità dell’architetto letterario che l’ha inventata, dobbiamo avere forti dubbi sulla sua origine.

Eppure, mentre negli altri sette racconti non è possibile rintracciare la minima base storica, essendo essi indiscutibilmente leggendari, esiste invece una base storica per quest’ultimo racconto.

È risaputo che uno dei mondi chiusi è stato chiuso perché si tratta di un mondo di formiche. Oggi è un mondo di formiche… ed è stato un mondo di formiche per innumerevoli generazioni.

Non c’è alcuna prova che il mondo delle formiche sia il mondo d’origine sul quale è sorta la civiltà canina, ma non esistono neppure prove sostanziali che smentiscano questa tesi. Il fatto che le ricerche fino a oggi compiute non abbiano rivelato alcun mondo il quale possa vantarsi d’essere il mondo d’origine parrebbe indicare che il mondo delle formiche possa realmente essere quello che veniva chiamato Terra.

In questo caso, ogni speranza di trovare ulteriori prove sull’origine della leggenda è perduta per sempre, perché soltanto su quel primo mondo potrebbero esistere resti di artifatti i quali potrebbero provare al di là di ogni dubbio la verità sull’origine della leggenda. Soltanto su quel primo mondo si può sperare di trovare la risposta alla domanda fondamentale dell’esistenza o meno dell’Uomo. Se il mondo delle formiche è la Terra, allora la città chiusa di Ginevra e la casa sulla Collina dei Webster sono perdute per sempre.

VIII

IL MODO SEMPLICE

Archie, il piccolo procione rinnegato, stava acquattato sul fianco della collina, cercando di afferrare una delle piccole creature frettolose che correvano tra l’erba. Rufus, il robot di Archie, cercava di parlare al procione, ma Archie era troppo occupato e non gli dava risposta.

Homer stava facendo una cosa che nessun Cane aveva mai fatto prima. Aveva attraversato il fiume e trotterellando si stava avvicinando al campo degli automi selvaggi, e così facendo tremava di paura, perché non si poteva dire cosa gli avrebbero fatto gli automi selvaggi quando si fossero voltati e l’avessero visto. Ma la sua preoccupazione era più forte della paura, e così continuava ad andare avanti.

Nelle profondità di un nido segreto, le formiche sognavano e facevano piani oscuri su di un mondo che non potevano comprendere. E si addentravano in quel mondo, vibranti di grandi speranze, mirando a una cosa che nessuno, né Uomo, né robot, né Cane, avrebbe mai potuto capire.

A Ginevra, Jon Webster compiva il decimillesimo anno di animazione sospesa e continuava a dormire, immobile e sereno. Fuori, nella strada giù dalla collina, una brezza vagabonda faceva frusciare le foglie del viale, ma nessuno udiva e nessuno vedeva.

Jenkins camminava a grandi passi sulla collina, e non guardava né a destra né a sinistra, perché c’erano cose che non voleva vedere. C’era un albero che si ergeva là dove un altro albero aveva stormito nel vento di un altro mondo. C’era una distesa di terreno ch’era stata impressa nella sua mente, calpestata da un miliardo di passi, per diecimila anni.

E, se si ascoltava attentamente, era possibile udire l’eco di una risata che vibrava già per la china dei millenni… la risata sardonica di un uomo di nome Joe.

Archie riuscì ad acchiappare una delle creature frettolose e la tenne stretta nella zampa ben chiusa. Cautamente, alzò la zampa e la schiuse, e la creatura era là, che correva follemente nel minuscolo spazio, e cercava di fuggire.

«Archie,» disse Rufus. «Tu non mi stai ascoltando.»

La creatura si tuffò nel pelo di Archie, cominciò a risalire veloce la zampa del procione.

«Forse era una pulce,» disse Archie. Si rialzò e si grattò lo stomaco.

«Un nuovo genere di pulce,» disse. «Anche se spero proprio di no. Le pulci comuni sono già abbastanza insopportabili.»

«Tu non mi stai ascoltando,» ripeté Rufus.

«Sono occupato,» disse Archie. «L’erba è piena di queste creature. Voglio scoprire cosa sono.»

«Io ti lascio, Archie.»