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Homer affondò più profondamente le anche nella sabbia.

«Non so cosa pensare,» disse. «Sono passati tanti anni…»

Andrew tracciò una O col dito nel quadrato centrale del disegno che aveva tracciato nella sabbia.

«Lo so,» disse. «Sono passati tanti anni, e per tutti questi anni voi avete vissuto con un sogno. L’idea che i Cani siano stati i primi. E i fatti sono duri da comprendere, duri da conciliare con il sogno. Forse sarebbe meglio che dimenticassi ciò che ti ho detto. I fatti, a volte, sono cose dolorose. Un robot deve lavorare su di essi, perché sono le sole cose sulle quali egli può lavorare. Noi non possiamo sognare, vedi. I fatti sono tutto quello che abbiamo.»

«Noi abbiamo superato i fatti già da molto tempo,» gli disse Homer. «Non li abbiamo abbandonati del tutto, perché a volte li usiamo. Ma lavoriamo in altri modi. Abbiamo l’intuizione e lo studio delle ombre e l’ascolto.»

«Voi non siete meccanici,» disse Andrew. «Per voi, due più due non dà sempre quattro, ma per noi deve essere quattro. E a volte mi chiedo se la tradizione non ci stia accecando. Mi chiedo, a volte, se due e due non possano dare qualcosa di più o di meno di quattro.»

Rimasero seduti in silenzio, il cane e il robot, guardando il fiume, un nastro di argento fuso che scorreva al centro di una terra colorata.

Andrew tracciò una X nell’angolo in alto a destra del disegno, una O nello spazio in alto al centro, una X nello spazio in basso al centro. Con il palmo della mano cancellò il disegno sulla sabbia, cancellò tutto, lasciando la polvere liscia e intatta.

«Non vinco mai,» disse. «Sono troppo intelligente per battermi.»

«Mi stavi dicendo delle formiche,» disse Homer. «Mi stavi dicendo che non erano più stupide.»

Jenkins camminava a lunghi passi sulla collina, e non guardava né a destra né a sinistra, perché c’erano cose che non voleva vedere, cose che colpivano troppo profondamente la sua memoria antica. C’era un albero che si ergeva là dove un altro albero aveva stormito nel vento di un altro mondo. C’era una distesa di terreno ch’era stata impressa nella sua mente, calpestata da un miliardo di passi, per diecimila anni.

Il sole debole del pomeriggio, già raggelato dai brividi sottili dell’inverno, baluginava nel cielo, baluginava come la fiamma di una candela toccata dal vento, e quando la fiamma cessò di baluginare e il vento invisibile se ne fu partito verso alberi e comignoli lontani, erano i raggi della luna a bagnare il mondo d’argento, e non più i tiepidi palpiti del sole del crepuscolo.

Jenkins rallentò il passo e si voltò e la casa era là… acquattata vicinissima alla terra, distesa sulla collina, come una creatura giovane e sonnolenta aggrappata alla madre terra.

Jenkins fece un passo esitante e, quando si mosse di nuovo, il suo corpo di metallo brillò e scintillò rifrangendo in una pioggia di diamanti d’argento la luce della luna, ch’era stata la luce del sole soltanto un breve istante prima, lo spazio fuggevole del battito di un cuore.

Dal fondo della valle, là dove scorreva il fiume d’argento, giungeva il pianto lontano di un uccello notturno, e un procione stava singhiozzando in un campo di granoturco, subito dietro la cima del colle.

Jenkins fece un altro passo e pregò che la casa non se ne andasse… benché sapesse che la casa se ne sarebbe andata, perché non era là. Perché quella era la cima spoglia di una collina che non aveva mai conosciuto una casa. Perché quello era un altro mondo, dove non esistevano case.

La casa restò, nera e silenziosa, e non usciva fumo dal comignolo, non usciva luce dalle finestre, ma i contorni erano quelli di sempre, quelli che il ricordo non poteva confondere.

Jenkins avanzò lentamente, molto lentamente, con prudenza, timoroso che la casa se ne andasse, timoroso di spaventarla e di farla sparire.

Ma la casa rimase, solida e ferma e oscura. E c’erano delle altre cose, e anche quelle rimasero. L’albero nell’angolo era stato un olmo e adesso era una quercia, com’era stato prima. E la luna era la luna d’autunno, e non il sole d’inverno. E la brezza soffiava da ponente, non soffiava fredda dal nord.

È accaduto qualcosa, pensò Jenkins. La cosa che è cresciuta dentro di me. La cosa che sentivo e che non potevo capire. Una nuova capacità che si sviluppava? Oppure un nuovo senso che finalmente veniva alla luce? Oppure soltanto un potere che non aveva mai sognato di possedere.

Il potere di camminare di mondo in mondo, a volontà. Il potere di andare ovunque io voglia, prendendo la strada più breve che le mutevoli linee di forza del tempo che non è il tempo, del caso che non è il caso, mi possono procurare.

Camminò con minore prudenza e la casa rimase ancora, per nulla spaventata, solida e materiale e sicura.

Attraversò il giardino invaso dalle erbacce e si fermò davanti alla porta.

Esitante, sollevò una mano e la posò sul saliscendi. E il saliscendi era là. Non era il fantasma di una cosa perduta, ma era là, nella concretezza del metallo.

Lentamente lo abbassò e la porta si aprì verso l’interno e lui varcò la soglia.

Dopo cinquemila anni, Jenkins era tornato a casa… era tornato alla Casa dei Webster.

Così c’era stato un uomo di nome Joe. Non un webster, ma un uomo. Perché un webster era un uomo. E i Cani non erano stati i primi.

Homer giaceva davanti al fuoco, mucchietto inerte di pelo e di ossa e di muscoli, con le zampe tese davanti a sé e il muso poggiato sulle zampe. Di tra gli occhi socchiusi vedeva il fuoco e l’ombra, sentiva il calore dei ceppi ardenti che gli scaldava il corpo, gli arruffava il pelo.

Ma all’interno della sua mente lui vedeva la sabbia e il robot acquattato accanto a lui e le colline curve sotto il peso degli anni.

Andrew era rimasto acquattato sulla sabbia e gli aveva parlato, con il sole d’autunno che riverberava stanco sulle sue spalle d’acciaio… gli aveva parlato di uomini e di cani e di formiche. Di una cosa ch’era accaduta quando Nathaniel era stato vivo, e quello era un tempo già da molto passato, perché Nathaniel era il primo Cane.

C’era stato un uomo di nome Joe… un uomo-mutante, un uomo che era più dell’Uomo… e quell’uomo di nome Joe che era stato un mutante aveva guardato le formiche e si era posto delle domande, in un giorno perduto di dodicimila anni prima. Si era chiesto perché le formiche avessero progredito fino a un certo punto e poi si fossero fermate, perché avessero raggiunto la fine del vicolo cieco del destino.

La fame, forse, aveva pensato Joe… quel bisogno pressante di trovare del cibo per sopravvivere. L’ibernazione, forse, il letargo ristagnante del sonno d’inverno, l’anello spezzato della catena dei ricordi, il ricominciare tutto da principio, tanto che ogni anno e ogni primavera rappresentavano una nuova genesi per le formiche.

Così, aveva detto Andrew, con il suo cranio calvo riverberante nel sole, Joe aveva scelto un formicaio, e si era messo al lavoro, come un dio, per cambiare il destino delle formiche. Le aveva sfamate, perché non avessero più bisogno di lottare disperatamente per sopravvivere, di lottare disperatamente contro una grande nemica, la fame. Aveva racchiuso il formicaio in una cupola di vetro e aveva riscaldato la cupola, perché esse non cadessero più in letargo.

E la cosa aveva funzionato. Le formiche erano progredite, avevano fabbricato dei piccoli carri e avevano imparato a fondere i metalli. Tutto questo si era potuto sapere, perché i carretti avevano viaggiato sul terreno e acri vapori di metallo fuso erano usciti dai comignoli sporgenti dal formicaio. Quali altre cose avessero fatto, quali altre cose avessero imparato, nelle profondità segrete delle loro gallerie, non c’era modo di saperlo.

Joe era pazzo, aveva detto Andrew. Pazzo… eppure, forse, non così pazzo.

Perché un giorno aveva distrutto la cupola di vetro e aveva fatto crollare il formicaio col piede, poi si era voltato e se ne era andato, senza più curarsi delle formiche.