Ma le formiche, invece, si erano curate del proprio destino.
La mano che aveva distrutto la cupola, il piede che aveva sconvolto il formicaio, erano stati la mano e il piede che avevano messo le formiche sulla strada della grandezza. Le formiche erano state costrette a lottare… lottare per conservare le cose che avevano, lottare per impedire alla bottiglia del destino di chiudersi ancora una volta sulle loro speranze.
Un calcio ben dato, aveva detto Andrew. Un calcio ben dato, per le formiche. Un calcio nella giusta direzione.
Dodicimila anni prima era stato un formicaio sconvolto e rovesciato, oggi era una costruzione immensa che cresceva con il passare di ogni anno.
Una costruzione… e non poteva essere il nome adatto, anche se fin dall’inizio era stata chiamata ’la Costruzione’. Perché una costruzione era un edificio, e un edificio era una casa, e una casa era un riparo, un luogo in cui nascondersi dalle dita crudeli del gelo e della tempesta. E le formiche non avevano bisogno di questo, perché avevano le loro gallerie e i loro formicai.
Perché una formica avrebbe dovuto costruire un edificio che aveva inghiottito dieci chilometri quadrati di terra in poco più di un secolo, e, malgrado ciò, continuava a crescere e a crescere e a crescere ancora? Cosa avrebbe potuto farsene una formica di un luogo simile?
Homer appoggiò il muso sulle zampe, stancamente, e un mugolio gli salì alle labbra.
Non c’era modo di saperlo. Perché, prima, bisognava sapere come pensava una formica. Bisognava conoscere le sue ambizioni e la sua meta. Bisognava scrutare dentro di lei, apprendere ciò che lei sapeva, sondare la sua scienza.
Dodicimila anni di scienza e di conoscenza. Dodicimila anni, da un punto di partenza anch’esso ignoto, anch’esso imperscrutabile.
Ma bisognava sapere. Doveva esserci un modo per sapere.
Perché, un anno dopo l’altro, la Costruzione avrebbe continuato a crescere. Prima un chilometro e poi sei chilometri e poi cento chilometri. Cento chilometri, duecento chilometri, e poi, ancora, tutto il mondo.
Potremmo ritirarci, pensò Homer. Sì, potremmo ritirarci. Potremmo migrare in quegli altri mondi, i mondi che ci seguono lungo il fiume del tempo, i mondi che si sfiorano senza mai toccarsi, uno dopo l’altro, in una processione infinita. Potremmo lasciare la Terra alle formiche, e ci sarebbe ancora dello spazio per noi.
Ma questa è la nostra patria. Questa è la nostra casa. È qui che i Cani sono nati, e qui che è nata la nostra civiltà, è qui che abbiamo insegnato agli animali a parlare, e non solo a parlare, ma a pensare e ad agire insieme. È questo il luogo in cui abbiamo creato la Fratellanza degli Animali.
Perché non ha importanza il nome di chi è venuto per primo… il webster o il cane. Questa è la nostra casa. È la nostra casa, come è la casa delle formiche.
E noi dobbiamo fermare le formiche.
Deve esserci un modo di fermarle. Un modo di parlare con loro, di scoprire quello che vogliono. Un modo di ragionare con loro. Una base per negoziare. Deve esistere un accordo che possiamo raggiungere.
Homer giacque immobile sulla pietra, davanti al fuoco, e ascoltò i mormoni sommessi che percorrevano la casa, ascoltò i passi soffocati e leggeri dei robot intenti alle loro faccende, ascoltò il chiacchierio sommesso dei Cani che si trovavano in un’altra stanza, al piano di sopra, ascoltò il crepitio delle fiamme che rodevano lente i ceppi ardenti.
Una buona vita, disse Homer, parlottando tra sé. Una buona vita, e pensavamo di essere stati noi a crearcela, da soli. Ma ora Andrew dice che non siamo stati noi. Ora Andrew dice che noi non abbiamo aggiunto uno iota al talento meccanico e alla logica meccanica che costituivano la nostra eredità… e che anzi abbiamo perduto molto. Lui mi ha parlato della chimica e ha cercato di spiegarmi i concetti, ma io non ho potuto capire. Lo studio degli elementi, mi ha detto, e ha parlato di cose che si chiamano atomi e molecole… E poi c’era anche l’elettronica, mi ha detto Andrew. Ma poi ha aggiunto che noi sappiamo fare certe cose, senza l’aiuto dell’elettronica, in maniera più prodigiosa di quanto avrebbe saputo fare l’uomo con tutta la sua scienza. Potresti studiare l’elettronica per un milione di anni, mi ha detto, senza mai raggiungere gli altri mondi, senza neppure sospettare la loro esistenza… e noi, invece, ci siamo riusciti, abbiamo fatto una cosa che un webster non avrebbe potuto fare.
Perché noi pensiamo in maniera diversa dai webster. No, si chiamano uomini, non webster.
E i nostri robot. I nostri robot non sono migliori di quelli che l’uomo ci ha lasciato. Una piccola modifica qua e là… una modifica ovvia, ma nessun reale perfezionamento.
Chi avrebbe mai potuto pensare, e neppure pensare, soltanto sognare, che possa esistere un robot migliore?
Una pannocchia di granoturco migliore, questo sì. O un albero migliore. O un metodo migliore per preparare il lievito che sostituisce la carne.
Ma un robot migliore… bene, un robot fa tutto quello che si desidera da lui. Perché dovrebbe essere migliore?
Eppure… i robot ricevono una chiamata e vanno a lavorare nella Costruzione, vanno a costruire una cosa che ci scaccerà dalla terra.
Non riusciamo a capire. È naturale che non possiamo capire. Se conoscessimo meglio i nostri robot, potremmo capire. E, una volta compreso il motivo di ciò che accade, potremmo cambiare i robot, in modo che essi non ricevano la chiamata o, se la ricevono, non le prestino attenzione.
E questa, naturalmente, sarebbe la risposta. Se i robot non lavorassero, non ci sarebbe la Costruzione. Perché le formiche, senza l’aiuto dei robot, non potrebbero continuare a costruire.
Una pulce si mise a correre sulla testa di Homer, e Homer agitò un orecchio.
Andrew, però, potrebbe sbagliarsi, si disse Homer. Noi abbiamo le nostre leggende sulla nascita delle Fratellanza degli Animali, e i robot hanno le loro leggende sulla caduta dell’uomo. Dopo tanto tempo, chi ci può dire, ormai, quale dei due abbia ragione, cane o robot?
Ma la storia di Andrew ha un senso compiuto. C’erano dei Cani e c’erano dei robot e quando l’Uomo conobbe il momento della caduta i Cani e i robot si divisero, seguendo ciascuno la propria strada… anche se noi tenemmo alcuni robot, perché ci servissero come mani. Alcuni robot rimasero con noi, ma nessun Cane rimase con i robot.
Una mosca d’autunno uscì da un angolo, ronzando, stordita e confusa dalla luce del fuoco. Una delle ultime mosche dell’estate, pensò Homer, che è riuscita a vivere fino ai primi freddi, e che ora vola incerta, senza accettare la fine che l’aspetta. La mosca si mise a ronzare intorno al muso di Homer, e si posò sul naso del cane. Homer la fissò con aria minacciosa, e la mosca sollevò le zampette e, insolentemente, si pulì le ali. Homer agitò una zampa, e la mosca volò via.
Qualcuno bussò alla porta.
Homer alzò il capo, sorpreso.
«Avanti,» disse, ancora perduto nei suoi pensieri.
Era il robot, Hezekiah.
«Hanno preso Archie,» disse Hezekiah.
«Archie?»
«Archie, il procione.»
«Oh, sì,» disse Homer. «Quello che è scappato.»
«È qui fuori, adesso,» disse Hezekiah. «Lo vuoi vedere?»
«Fallo entrare,» disse Homer.
Hezekiah fece un segno col dito e Archie entrò lentamente dalla porta. Aveva il pelo macchiato e arruffato, e la coda gli pendeva inerte. Dietro di lui torreggiavano due robot guardiani.
«Ha cercato di rubare del granoturco,» disse uno dei guardiani, «E noi l’abbiamo scoperto, ma ci ha fatto correre, oh, se ci ha fatto correre!»
Homer si alzò maestosamente, e fissò Archie. Archie sostenne il suo sguardo, fissandolo negli occhi.
«Non mi avrebbero preso mai,» disse Archie, «Se avessi avuto ancora Rufus. Rufus era il mio robot e mi avrebbe avvertito.»
«E dov’è adesso Rufus?»