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«Oggi ha ricevuto la Chiamata,» disse Archie. «E mi ha lasciato per andare alla Costruzione.»

«Dimmi,» fece Homer. «È successo qualcosa a Rufus, prima che se ne andasse? Qualcosa di insolito? Qualcosa fuori dell’ordinario?»

«Niente,» rispose Archie. «A parte il fatto che era caduto in un formicaio. Era un robot maldestro. Non faceva altro che inciampare in tutti gli ostacoli… era sempre per terra, o era sempre impigliato da qualche parte. Non era coordinato come avrebbe dovuto essere. Aveva un bullone allentato da qualche parte, dentro.»

Una cosa minuscola e nera saltò dal naso di Archie, e si mise a correre sul pavimento. Archie mosse la zampa con la velocità del lampo, e raccolse la creaturina.

«Farai bene a scostarti,» disse Hezekiah. «È addirittura grondante di pulci.»

«Non è una pulce,» disse Archie, ansimando di collera. «È un’altra cosa. L’ho presa nel pomeriggio. Fa tic-tic e sembra una formica, ma non è una formica.»

La cosa che faceva tic-tic sfuggì dalle unghie del procione e cadde sul pavimento. Cadde male, si rimise eretta, e ricominciò a correre. Archie cercò di prenderla con la zampa, ma la cosa gli sfuggì, correndo a zig-zag sul pavimento. Come un lampo, raggiunse Hezekiah e si arrampicò sulla gamba del robot.

Homer balzò sulle quattro zampe, e improvvisamente, subitaneamente, un lampo di comprensione gli attraversò la mente.

«Presto!» gridò. «Prendila! Fermala! Non lasciarle…»

Ma la cosa era sparita.

Lentamente Homer tornò a sedersi. La sua voce era calma, ora, di una calma quasi mortale.

«Guardiani,» disse. «Prendete in custodia Hezekiah. Non lasciatelo un momento, non permettetegli di muoversi. Riferitemi ogni suo gesto e ogni sua azione immediatamente.»

Hezekiah indietreggiò.

«Ma io non ho fatto niente!»

«No,» disse Homer, quasi con dolcezza. «No, non ancora. Ma lo farai. Riceverai la Chiamata e cercherai di abbandonarci per andare alla Costruzione. E prima di lasciarti andare, scopriremo per quale motivo lo farai. Cos’è che ti costringe e in quale modo agisce.»

Homer si voltò, con il muso raggrinzito da un sorriso canino.

«E adesso, Archie…» disse.

Ma Archie non c’era più.

C’era una finestra aperta. E Archie non c’era più.

Homer si agitò sul letto di fieno, riottoso, perché non voleva svegliarsi. Un ringhio soffocato gli saliva dalla gola.

Sto invecchiando, pensò. Troppi anni sono sopra di me, come gli anni che schiacciano le colline. C’è stato un tempo in cui sarei balzato dal letto al primo mormorio, al primo rumore udito alla porta, con il pelo sporco di fieno, e avrei abbaiato con tutte le mie forze per avvertire i robot.

Si udì bussare di nuovo e Homer, barcollando, si alzò.

«Entra pure,» gridò. «Piantala di fare tutto questo frastuono, ed entra.»

La porta si aprì ed entrò un robot, ma il robot più grande e imponente che Homer avesse mai visto. Un robot dal grande corpo di metallo lucido, immenso e maestoso, e il metallo levigato pareva splendere di fuoco soffuso anche nel buio. E sulla spalla del robot era appollaiato Archie, il procione.

«Io sono Jenkins,» disse il robot. «Sono tornato stanotte.»

Homer sussultò, inghiottì, e sedette lentamente, molto lentamente.

«Jenkins,» disse. «Ci sono delle storie… delle leggende… di un passato molto lontano.»

«Sono solo leggende?» chiese Jenkins.

«Sono solo leggende e niente di più,» disse Homer. «La leggenda di un robot che ebbe cura di noi. Ma Andrew ha parlato di Jenkins, oggi, come se lo avesse conosciuto. E poi c’è la storia che narra come i Cani ti donassero un corpo, quando tu compisti settemila anni, e come quel corpo fosse meraviglioso…»

Tacque d’un tratto… perché il corpo del robot ritto davanti a lui, con il procione appollaiato sulla spalla… quel corpo non poteva essere che quel dono di compleanno.

«E la Casa dei Webster?» domandò Jenkins. «Conservate ancora la Casa dei Webster?»

«Noi conserviamo ancora la Casa dei Webster,» disse Homer. «La conserviamo così com’è. È una cosa che dobbiamo fare.»

«E i webster?»

«Non ci sono più webster.»

Jenkins annuì, a quella risposta. I sensi perfetti del suo corpo gli avevano già detto che non c’erano più webster. Non si udivano le vibrazioni dei webster. E nella mente delle creature che lui aveva sfiorato con quel senso prodigioso, non c’erano pensieri che riguardassero i webster.

E così doveva essere.

Attraversò lentamente la stanza, con il passo vellutato come il passo di un gatto, malgrado la sua mole enorme, e Homer lo sentì vicino, sentì l’amicizia e la bontà che sprigionavano da quella creatura di metallo, si sentì protetto dalla forza poderosa dell’antico, antichissimo robot.

Jenkins si acquattò sul pavimento, accanto a lui.

«Voi siete nei guai,» disse Jenkins.

Homer lo fissò, senza rispondere.

«Le formiche,» spiegò Jenkins. «Me l’ha detto Archie. Mi ha detto che eravate nei guai a causa delle formiche.»

«Sono andato alla Casa dei Webster per nascondermi,» disse Archie. «Temevo che tu mi facessi cercare di nuovo, che i guardiani ricominciassero a darmi la caccia, e pensavo che forse alla Casa dei Webster…»

«Silenzio, Archie,» gli disse Jenkins. «Tu non sai niente della faccenda. Me l’hai detto tu stesso. Hai detto solo che i Cani erano nei guai per colpa delle formiche.

«Immagino che si tratti delle formiche di Joe,» disse.

«Così tu sai di Joe,» disse Homer. «Così c’era davvero un uomo di nome Joe.»

Jenkins ridacchiò.

«Sì, e combinava molti guai. Ma a volte era simpatico. Era un vero demonio.»

Homer disse:

«Stanno costruendo. Costringono i robot a lavorare per loro e costruiscono una immensa struttura.»

«Certamente,» disse Jenkins. «Anche le formiche hanno il diritto di costruire.»

«Ma costruiscono troppo in fretta. Ci scacceranno dalla Terra. Altri mille anni, e avranno coperto la Terra intera, se continueranno a costruire al ritmo attuale.»

«E non avete alcun posto dove andare? È questo che vi preoccupa?»

«Sì, abbiamo un posto dove andare. Molti posti, anzi. Tutti gli altri mondi. I mondi delle ombre.»

Jenkins annuì, con aria grave.

«Io sono stato in un mondo delle ombre. Il primo mondo dopo questo. Ho portato laggiù alcuni webster, cinquemila anni fa. E sono tornato soltanto stanotte. E so come ti senti, so quello che pensi. Nessun altro mondo è come la Terra. Nessun altro mondo è la nostra casa. Ho avuto fame e sete della Terra per ogni giorno di quei cinquemila anni. Sono tornato alla Casa dei Webster e vi ho trovato Archie. Lui mi ha parlato delle formiche e così sono venuto qui. Spero che non ti dispiaccia, né a te né a tutti i Cani.»

«Siamo felici che tu sia venuto,» disse Homer, a bassa voce, con una sfumatura di dolcezza.

«Quelle formiche…» disse Jenkins. «Immagino che vogliate fermarle.»

Homer annuì.

«Un modo esiste,» disse Jenkins. «So che un modo esiste. I webster conoscevano un modo… se solo riuscissi a ricordarlo. Ma è passato tanto tempo. Ed è un modo semplice, ne sono certo. Questo lo ricordo. Un modo semplicissimo.»

Sollevò una mano e strofinò il mento d’acciaio.

«Perché fai questo?» chiese Archie.

«Come?»

«Perché ti strofini la faccia a quel modo? C’è uno scopo?»

Jenkins lasciò ricadere il braccio.

«È solo un’abitudine, Archie. Un gesto dei webster. Un modo di fare che avevano nel pensare. L’ho preso da loro.»

«Ti aiuta a pensare?»

«Be’, forse. E forse no. Pareva aiutare i webster. E adesso, che cosa farebbe un webster, in un caso del genere? I webster potrebbero aiutarci. Lo so che potrebbero…»