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Jenkins fuggì. E, mentre lui fuggiva, una spaccatura apparve nel soffitto, lassù, in alto, lontanissimo dal suolo, e si udì un rumore strano, stridente e crepitante, mentre la spaccatura avanzava serpentina.

Jenkins attraversò correndo il buco del Muro, e continuò a fuggire, rifugiandosi sul prato. Alle sue spalle udì il tuono prodotto dal crollo di una parte del tetto. Allora si volse e guardò, mentre altre porzioni della Costruzione crollavano, e grandi macerie cadevano su quei formicai morti e desolati, rovesciando le miriadi di emblemi di quel piede umano, gli emblemi che erano stati posti alla sommità di ogni formicaio.

Jenkins si voltò di nuovo, allora, e camminò lentamente sul prato, e cominciò a salire il pendio che conduceva alle sommità della collina sulla quale sorgeva la Casa dei Webster. Quando fu sulla veranda, vide che per il momento il crollo della Costruzione era terminato. Gran parte del muro esterno era crollata, e un enorme buco si spalancava nella Costruzione sostenuta dal muro.

In quella serena giornata d’autunno, pensò Jenkins, lui assisteva all’inizio della fine. Lui era stato là, quando tutto era cominciato, ed era ancora là, per assistere alla fine. Si domandò ancora una volta quanto tempo fosse passato, e rimpianse, ma solo fuggevolmente, di non avere conservato una traccia del trascorrere dei giorni.

Gli uomini se ne erano andati e i Cani se ne erano andati, e, a parte lui, anche tutti i robot se ne erano andati. Ora anche le formiche se ne erano andate, e la Terra era rimasta sola, sola con un antico, massiccio robot, e con dei minuscoli, indifferenti topolini di campo. Forse esistevano ancora dei pesci, pensò Jenkins, e altre creature del mare, e chissà quali erano queste creature del mare, e che cosa facevano. Forse stavano raggiungendo l’intelligenza. Ma l’intelligenza veniva nella maniera più difficile, la si conquistava a duro prezzo, e non durava a lungo. Tra un giorno, pensò, forse un’altra intelligenza sarebbe uscita dal mare, anche se nelle profondità del suo essere egli sapeva che questo era sommamente improbabile.

Le formiche avevano deciso di rinchiudersi, pensò, Jenkins. Il loro mondo era stato un mondo chiuso e inaccessibile. Avevano fallito, forse, perché non c’era stato per loro alcun posto ove andare? O perché il loro mondo era stato chiuso fin dall’inizio? C’erano state delle formiche, nel mondo, fino dal remoto Giurassico, centottanta milioni di anni prima, e forse molti, molti di più. Milioni di anni prima del tempo in cui i progenitori dell’uomo erano esistiti, le formiche avevano già stabilito un rigido ordine sociale. Erano progredite solo fino a un certo punto; avevano stabilito il loro ordine sociale, e si erano accontentate di questo… si erano accontentate di questo, perché si trattava di quanto realmente desideravano, o perché non erano riuscite ad andare oltre? Avevano raggiunto la sicurezza, e, nel Giurassico e per molti milioni di anni dopo, questa sicurezza era stata sufficiente. La cupola di Joe aveva contribuito a rafforzare questa sicurezza, e allora esse avevano potuto progredire di nuovo, perché era stato sicuro progredire, avendone le possibilità e le capacità. Era evidente, certo, che le formiche possedevano la capacità di progredire, ma l’antico concetto di sicurezza aveva continuato a prevalere. Le formiche non erano state capaci di liberarsene. Forse non avevano neppure mai tentato di liberarsene, non avevano mai compreso che quell’idea era un peso per loro, non avevano mai avvertito la necessità di scrollare quell’eredità dai loro corpi, per proseguire liberamente. Era stato quell’antico desiderio di sicurezza, di ordine stabilito, si domandò Jenkins, l’elemento che alla fine aveva avuto il sopravvento su di loro, e le aveva uccise?

Con un tuono rimbombante, uno schianto che riecheggiò tutt’intorno all’orizzonte, un’altra porzione del tetto crollò.

Per quali scopi avrebbe potuto lottare una formica? Per mantenere la sicurezza, e che altro? Per accumulare e mettere da parte, forse… raccogliendo in tutta la Terra anche le ultime briciole di tutto ciò che poteva aver valore, e riponendo ogni cosa in vista di tempi di carestia, pensando al domani. E anche questo, in sé, non era altro che una delle tante sfaccettature del feticcio della sicurezza. Una forma di religione, forse… i simboli di quel piede umano pronto a colpire, che si ergevano sopra ogni formicaio, forse erano stati davvero simboli religiosi. E, ugualmente, simboli di sicurezza. Sicurezza, per l’anima delle formiche. La conquista dello spazio? E forse le formiche avevano conquistato lo spazio, si disse Jenkins. Per una creatura grande come una formica il mondo stesso doveva apparire una galassia vasta e sconfinata. Le formiche avevano conquistato una galassia, senza neppure sospettare che, più oltre, si apriva un’altra galassia infinitamente più grande. E anche la conquista di una galassia poteva apparire come un’altra forma di sicurezza.

Era tutto sbagliato, pensò Jenkins. Lui continuava ad attribuire alle formiche gli stessi processi ragionativi degli esseri umani, e poteva essere tutto diverso, poteva esserci molto di più, nel mondo delle formiche. Nelle menti delle formiche potevano esistere un certo fermento, una direzione strana, un’equazione etica incrollabile che non avevano mai fatto parte, né mai avrebbero potuto far parte, delle menti degli uomini.

Pensando a questo, Jenkins capì inorridito che nel costruire l’immagine di una formica lui aveva costruito l’immagine di un essere umano.

Cercò una poltrona, una vecchia poltrona a dondolo, e sedette, dondolandosi quietamente, scrutando oltre il prato, guardando là dove la Costruzione delle formiche continuava a crollare, un pezzo dopo l’altro.

Ma l’Uomo, ricordò Jenkins, aveva lasciato qualcosa dietro di sé. Aveva lasciato i Cani e i robot. Che cosa avevano lasciato le formiche, se avevano lasciato qualcosa? Nulla di evidente, nulla di certo, questo era ovvio… ma lui come avrebbe potuto saperlo?

Un uomo non avrebbe mai potuto saperlo, si disse Jenkins, e neppure un robot avrebbe potuto, perché un robot era un uomo, non di carne e ossa, come un uomo, ma sotto ogni altro aspetto sì. Le formiche avevano edificato la loro sconfitta… la società del formicaio era così saldamente radicata in loro, che esse non avevano saputo spezzarne i vincoli neppure per sopravvivere.

E io? si domandò d’un tratto. Non è forse anche il mio caso? Io sono racchiuso nella struttura sociale umana ancor più saldamente di quanto le formiche fossero racchiuse nella loro. Per meno di un milione di anni, ma per un tempo lunghissimo, quasi un’eternità, lui aveva vissuto non nella struttura della società umana, ma nel ricordo di quella struttura. Aveva vissuto in quella struttura, ora lo capiva, perché gli aveva offerto la sicurezza di un antico ricordo.

Continuò a dondolarsi sulla vecchia poltrona, in silenzio, ma colpito e scosso da quell’idea… o almeno dal fatto che quel pensiero fosse affiorato nella sua mente.

«Non è mai abbastanza,» disse, ad alta voce. «Non conosciamo mai abbastanza noi stessi.»

Si appoggiò ancor più allo schienale della poltrona, e pensò a quanto poco robotico fosse starsene seduto su una poltrona a dondolo. Un tempo, lui non si era mai seduto. Era l’uomo che viveva in lui, pensò. Permise alla sua testa di appoggiarsi allo schienale, di cedere al desiderio del riposo, e abbassò i filtri ottici per non vedere più la luce. Dormire, pensò… chissà cosa si provava a dormire? Forse il robot che lui aveva trovato accanto al formicaio… ma no, quel robot era morto, non addormentato. Era tutto sbagliato, si disse. I robot non dormivano e non morivano.