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Altri suoni gli giunsero. La Costruzione continuava a crollare, e laggiù, sul prato, la brezza autunnale faceva frusciare l’erba. Tese i suoi sensi, per sentire i topi che correvano nelle loro gallerie, ma per una volta i topi erano quieti e silenziosi. Erano rannicchiati, in attesa. Poteva avvertire il senso di attesa che li pervadeva. I topi sapevano, in virtù di chissà quale senso dimenticato, che c’era qualcosa di diverso, che c’era qualcosa di sbagliato.

E c’era un altro suono, un bisbiglio, un suono che Jenkins non aveva mai udito in passato, un suono completamente alieno.

Aprì di scatto i suoi filtri ottici, e si rizzò a sedere, repentinamente, e proprio davanti a lui vide l’astronave atterrare sul prato.

I topi stavano correndo, ora, terrorizzati, fuggivano per salvare la vita, e l’astronave si posò al suolo, leggera, e giacque immobile, assestandosi sull’erba.

Jenkins balzò in piedi e usò tutti i suoi sensi, dirigendoli verso l’astronave, ma ogni tentativo di sondare la misteriosa, inaspettata apparizione s’infrangeva sulla superficie dello scafo. Gli era impossibile penetrare quella superficie con i suoi sensi, come gli era stato impossibile penetrare il Muro che gli aveva precluso tutto ciò che si era trovato all’interno della Costruzione, fino a quando il Muro non aveva cominciato a crollare.

Rimase così immobile, sulla veranda, completamente confuso da quella cosa tanto inaspettata. Ed era giusto che lui fosse confuso, pensò, perché fino a quel giorno non era mai accaduto niente d’inatteso. I giorni avevano continuato a scorrere, uno dopo l’altro, uno uguale all’altro, fondendosi, i giorni, gli anni, i secoli, ed era stato impossibile distinguere gli uni dagli altri. Il tempo aveva continuato a scorrere come un grande, possente fiume, senza cascate e senza rapide improvvise, sempre uguale e inarrestabile. E ora, in quel giorno, proprio quello tra tutti i giorni, la Costruzione era crollata e un’astronave era atterrata.

Un portello si aprì sul fianco dell’astronave, e dal portello venne gettata una scaletta. Un robot scese da quella scaletta, e avanzò a grandi passi sul prato, dirigendosi verso la Casa dei Webster. Il robot si fermò sul limitare della veranda.

«Salve, Jenkins,» disse. «Pensavo che ti avremmo trovato qui.»

«Tu sei Andrew, vero?»

Andrew ridacchiò, fissandolo.

«Così ti ricordi di me.»

«Io ricordo tutto,» disse Jenkins. «Tu sei stato l’ultimo a partire. Tu, insieme ad altri due robot, terminasti la costruzione dell’ultima astronave, e poi partisti dalla Terra. Io sono rimasto qui, e ho assistito alla tua partenza. Vi ho visti andare, tutti. Che cosa avete trovato, là fuori?»

«Tu ci chiamavi robot selvaggi,» disse Anderw. «Immagino che lo pensassi davvero. Ci giudicavi pazzi.»

«Non eravate dei robot normali,» lo corresse Jenkins.

«E cosa è normale?» domandò Andrew. «Vivere in un sogno? Vivere per un ricordo? Devi esserne stanco, ormai.»

«Non sono stanco…» disse Jenkins, e poi la sua voce si spense. «Andrew, le formiche hanno fallito. Sono morte. L’edificio che hanno costruito sta crollando.»

«E questo chiude il discorso su Joe,» disse Andrew. «E anche sulla Terra. Non è rimasto più niente.»

«Ci sono i topi,» disse Jenkins. «E c’è la Casa dei Webster.»

Pensò di nuovo al giorno in cui i Cani gli avevano donato un corpo nuovissimo, un regalo per il giorno del suo compleanno. Il corpo era stato un vero gioiello. Neppure il trapano più acuminato avrebbe potuto scalfirlo, e la ruggine non lo avrebbe mai potuto attaccare, ed era dotato di dispositivi sensoriali quali lui non aveva mai neppure sognato. Lo portava ancora oggi, ed era come nuovo, e quando lui si curava di lucidare un poco il petto, l’incisione appariva ancora, chiara e nitida: A JENKINS, DAI CANI.

Lui aveva visto partire tutti… gli uomini erano andati a Ginevra, per vivere un’eternità di sogni, e i Cani e tutti gli altri animali erano partiti per uno dei mondi delle ombre, e ora, infine, anche le formiche erano partite, per l’oscuro, freddo sentiero dell’estinzione.

Era sconvolgente accorgersi dell’impressione che l’estinzione delle formiche aveva prodotto su di lui. Come se fosse giunto qualcuno ad apporre il punto finale all’ultimo, definitivo periodo della storia della Terra.

Dei topi, pensò. Dei topi, e la Casa dei Webster. Con l’astronave ferma al centro del prato, potevano bastare? Cercò di riflettere, cercò di pensare: il ricordo si era consumato, era diventato più fragile, più esile? Il debito che lui aveva accumulato era stato pagato? Aveva versato anche l’ultima stilla di devozione?

«Ci sono dei mondi, là fuori,» stava dicendo Andrew. «E su alcuni di essi esiste la vita. Esiste anche l’intelligenza, là fuori. E c’è del lavoro da compiere.»

Lui non avrebbe potuto andare nel mondo delle ombre che i Cani avevano scelto come loro dimora. Molto tempo prima, nei tempi remoti dell’inizio, i Webster se ne erano andati, affinché i Cani potessero sviluppare la loro civiltà senza interferenze umane. E lui non poteva fare meno di quanto avessero fatto i Webster, perché lui era, dopotutto, un Webster. Non poteva intromettersi nelle loro azioni; non poteva interferire.

Aveva tentato la strada dell’oblio, ignorando il trascorrere del tempo, e non aveva funzionato, perché un robot non può dimenticare.

Aveva creduto che le formiche non avessero mai avuto importanza, in realtà. Le aveva considerate fastidiose, a volte le aveva perfino odiate, perché, se non fosse stato per loro, i Cani sarebbero stati ancora là, su quel mondo. Ma ora sapeva che tutta la vita contava.

C’erano ancora i topi, ma i topi stavano meglio da soli. Erano gli ultimi mammiferi rimasti sulla Terra, e avrebbero dovuto proseguire liberi, senza intromissioni o interferenze. Non ne volevano, e non ne avevano bisogno, e avrebbero saputo cavarsela bene. Sarebbero stati loro a foggiare il loro destino, e se quel destino fosse stato soltanto quello di rimanere semplici topi, non ci sarebbe stato niente di male, niente di sbagliato.

«Passavamo di qui,» disse Andrew. «Forse non passeremo mai più da queste parti.»

Altri due robot erano scesi dall’astronave, e stavano camminando sul prato. Un’altra sezione del Muro cadde, e con essa una parte del tetto. Dal punto in cui ora si trovava, Jenkins udiva solo l’eco attutita del crollo, e quel suono pareva giungere da molto più lontano di quanto fosse in realtà.

Così rimaneva solo la Casa dei Webster, e la Casa dei Webster era soltanto un simbolo della vita che un tempo aveva ospitato. Era fatta solo di pietra e di legno e di metallo. Il suo significato, la sua importanza, pensò Jenkins, esistevano soltanto nella sua mente, un concetto psicologico che era stato lui stesso a creare.

Costretto ormai in un angolo, Jenkins ammise anche l’ultima realtà, la più difficile da accettare. Non c’era bisogno di lui in quel luogo. Lui rimaneva là, da solo, e non c’era bisogno di lui.

«Abbiamo posto per te,» disse Andrew. «E abbiamo anche bisogno di te.»

Fino a quando c’erano state le formiche, non c’erano stati problemi, né dubbi, né domande. Ma ora le formiche se ne erano andate. E questo che cosa cambiava? Lui non aveva mai amato le formiche.

Jenkins si volse, ciecamente, e scese barcollando dalla veranda, e varcò la porta che conduceva nella casa. Le pareti cominciarono a gridargli mille e mille parole. E anche molte voci gridarono, voci che giungevano anch’esse dalle ombre del passato. Jenkins rimase immobile, e ascoltò quelle voci, e si accorse di una cosa strana. Le voci erano là, come sempre, ma lui non udiva le parole che esse pronunciavano. Un tempo c’erano state anche le parole, ma ora le parole se ne erano andate, e, chissà, col tempo se ne sarebbero andate anche le voci, forse? Cosa sarebbe accaduto, si chiese, nel giorno in cui la casa fosse diventata infine quieta e silenziosa e solitaria, quando tutte le voci se ne fosse andate, e anche tutti i ricordi fossero sbiaditi e perduti? Erano già sbiaditi, lo sapeva. Non erano più nitidi e chiari e cristallini; avevano continuato a sbiadire, nel corso di tutti quegli anni, mentre il tempo che lui non aveva voluto riconoscere aveva continuato a scorrere.