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«Non avrà bisogno di restare qui,» disse Adams. «Con l’elicottero, potrà andare e venire tutti i giorni.»

Un richiamo giunse dai piedi della collinetta.

«È Ole,» gridò Pa’.

Agitò il bastone, in segno di saluto.

«Ciao, Ole. Siamo qui, vieni!»

I tre uomini attesero in silenzio, guardando Ole salire verso di loro, sulla collina coperta di verde.

«Ti volevo parlare, Johnny,» disse Ole. «Mi è venuta un’idea. Mi è venuta stanotte, mentre dormivo come un sasso, e mi sono svegliato con quell’idea fissa…»

«Di che si tratta?» domandò Webster.

Ole lanciò un’occhiata ad Adams.

«Non ti preoccupare, è un amico,» disse Webster. «Si chiama Henry Adams. Forse ricordi suo nonno, il vecchio F.J. Adams.»

«Certo che lo ricordo,» disse Ole. «Pazzo per l’energia atomica, il vecchio Adams. È riuscito a cavarsela?»

«È riuscito a cavarsela abbastanza bene,» disse Adams.

«Sono contento di saperlo,» disse Ole. «Temo di essermi sbagliato, allora. Dicevo che non avrebbe mai combinato niente. Era sempre intento a sognare a occhi aperti, lui.»

«Qual è la tua idea, allora?» chiese Webster.

«Tu hai sentito parlare dei ranch di lusso, vero?» chiese Ole.

Webster annuì.

«Sono dei posti,» disse Ole. «Nei quali la gente va a fingere di essere dei veri cow-boys. Sono tutti contenti, nei ranch di lusso, perché non sanno in realtà quanto fosse difficile lavorare in un ranch, e credono che sia molto romantico andare a cavallo e…»

«Senti,» domandò Webster, «Non starai pensando di trasformare la fattoria in un ranch di lusso, vero?»

«No, certo,» disse Ole. «Non in un ranch di lusso. In una fattoria di lusso, magari. La gente, adesso, non sa più molte cose sulle fattorie, dato che non ne esistono quasi più. E quando leggono dei germogli addormentati sotto la neve d’inverno, e del campo coperto di rugiada all’alba, e di tutte le cose belle che…»

Webster fissò Ole, spalancando gli occhi.

«Andranno pazzi per la tua idea, Ole,» dichiarò. «Stavolta l’hai azzeccata in pieno. Si scanneranno tra loro, pur di trascorrere le loro vacanze in una vera fattoria dei tempi antichi, nella terra benedetta da Dio e…»

Da una macchia di cespugli, sulle pendici della collina, schizzò fuori una sagoma lucente che ticchettava e gorgogliava e strideva, irta di lame che balenavano da tutte le parti, agitando un lungo braccio sottile che somigliava a una piccola gru.

«Cosa diavolo…» domandò Adams.

«È quella miseria di una falciatrice!» esclamò Pa’, soffocando un grido di trionfo. «L’ho sempre saputo che sarebbe venuto un giorno in cui avrebbe perso qualche rotella, e sarebbe diventata completamente suonata!»

ANNOTAZIONI SUL SECONDO RACCONTO

Benché sia ancora estraneo al nostro mondo, secondo tutti gli altri metri di giudizio, il secondo racconto colpisce una corda più familiare del primo. Qui, per la prima volta, il lettore può ricevere l’impressione che il racconto sia nato intorno al fuoco di un accampamento dei Cani, situazione impensabile per ciò che concerne il primo racconto.

In questa storia sono espressi alcuni degli alti concetti etici e morali che i Cani hanno saputo comprendere e applicare. In questa storia, inoltre, c’è una lotta che un Cane può comprendere, anche se la lotta in questione rivela la degenerazione morale e mentale del suo protagonista.

Per la prima volta, inoltre, emerge un personaggio che possiede un’aura familiare… il robot. Nel robot Jenkins, che troviamo per la prima volta in questa storia, conosciamo un personaggio che per molte migliaia di anni è stato il preferito dei cuccioli. Taluni, come Stecco, considerano Jenkins l’autentico eroe della leggenda. In lui Stecco ravvisa una estensione dell’influenza umana oltre il tempo della scomparsa dell’Uomo, un mezzo meccanico in virtù del quale il pensiero umano ha continuato a guidare i Cani anche molto tempo dopo la scomparsa dell’Uomo.

Noi abbiamo ancora oggi i nostri robot, piccoli congegni preziosi e adorabili che esistono per un solo scopo… fornirci di mani. Nel corso degli anni, comunque, il robot di un Cane è diventato parte di lui a tal punto che nessun Cane oggi considera il suo robot un’entità separata e divisa.

La tesi di Stecco, secondo la quale il robot è un’invenzione dell’Uomo, un’eredità che la nostra specie ha ottenuto dall’Uomo, è stata violentemente attaccata dalla maggior parte degli studiosi della leggenda.

L’idea che il robot possa essere stato creato e donato ai Cani per aiutarli nello sviluppo della loro civiltà, secondo Salta, è un’idea che merita giustizia sommaria anche solo per la forza romantica che essa contiene. Si tratta chiaramente, sostiene Salta, di un espediente narrativo elementare, e come tale la sua veridicità deve essere messa in dubbio fin dal suo primo apparire.

Oggi non ci è possibile sapere come i Cani abbiano potuto creare i robot. Il processo evolutivo che ne ha reso possibile la costruzione è perduto nel passato. Quei pochissimi studiosi che hanno dedicato la loro attenzione allo studio della robotica affermano che l’uso altamente specializzato al quale il robot è destinato dimostra in maniera incontrovertibile che esso è stato inventato dai Cani. Per essere così specializzato, dicono questi studiosi, il robot deve necessariamente essere stato inventato e perfezionato dalla razza alle cui necessità particolari esso tanto bene si adatta. Nessuno, all’infuori di un Cane, continuano questi studiosi, potrebbe avere svolto un lavoro di tale eccellenza su di uno strumento così complicato.

Affermare che nessun Cane, oggi, è in grado di costruire un robot, significa ben poco, per non dire nulla. Nessun Cane è oggi in grado di costruire un robot perché non c’è bisogno di costruirne, dato che i robot si costruiscono da soli. Quando ce ne è stato bisogno, evidentemente, un Cane ha costruito un robot e, costruendo un robot, l’ha fornito dello stimolo a riprodursi che lo ha portato a costruire dei suoi simili, risolvendo così il problema in maniera tipicamente canina.

In questa storia, inoltre, viene introdotta un’idea che riaffiorerà poi per tutto il resto della leggenda, e che per molto tempo ha reso perplessi tutti gli studiosi e la maggior parte dei lettori. Si tratta dell’idea secondo la quale sarebbe possibile lasciare fisicamente questo mondo, penetrare nello spazio, e attraversarlo per raggiungere degli altri mondi. Benché l’idea, nei suoi aspetti principali, sia stata considerata una semplice fantasia che, naturalmente, ha il suo posto più adatto in una leggenda, molti studi sono stati dedicati a essa. Quasi tutti questi studi hanno confermato la convinzione secondo la quale una cosa simile è del tutto impossibile. Per credere a questa idea bisognerebbe affermare che le stelle che vediamo di notte siano immensi mondi, a grandi distanze dai nostri mondi. Tutti sanno, naturalmente, che le stelle sono semplicemente delle luci sospese nel cielo, e che quasi tutte sono vicinissime a noi.

Salta offre forse la migliore spiegazione per giustificare l’origine dell’idea dei mondi nello spazio. Si tratta, secondo lui, semplicemente di una modifica che qualche antico narratore ha elaborato basandosi sul mondo delle ombre, la cui esistenza i Cani conoscono dall’antichità più remota.

II

IL FORMICAIO

La nebbia calava dal cielo plumbeo, come fumo danzante tra i rami scheletrici degli alberi nudi. I vapori umidi addolcivano i contorni delle siepi e degli arbusti e degli edifici, e coprivano di un velo sfumato le distanze. La nebbia si posava scintillando sull’epidermide metallica dei robot silenziosi, e avvolgeva di fievoli aloni d’argento le spalle dei tre esseri umani che ascoltavano la voce salmodiante dell’uomo vestito di nero, che leggeva da un libro aperto, poggiato sulle mani schiuse a coppa.

«Poiché Io sono la Resurrezione e la Vita…»