La figura scolpita nella pietra, addolcita dal nuovo e antico manto di muschio che la copriva, che sorgeva sopra la porta della cripta, pareva tendere con ogni sua forza verso l’alto, con ogni cristallo del suo corpo teso verso qualcosa che nessun altro poteva vedere, qualcosa che dava vita, nella pietra, a un desiderio ansioso e insopprimibile. Tesa e ansiosa com’era stata dal giorno in cui degli uomini di un’epoca ormai lontana l’avevano fatta nascere dal granito, scolpendola e modellandola perché adornasse la tomba di famiglia con un simbolismo che aveva compiaciuto il primo John J. Webster negli ultimi anni che la vita gli aveva dato.
«E chi crede e vive in Me…»
Jerome A. Webster sentì le dita di suo figlio stringergli il braccio, udì il singhiozzo soffocato di sua madre, vide le file di robot allineate rigidamente in piedi, a capo chino in segno di rispetto per il padrone che essi avevano servito. Il padrone che adesso stava tornando a casa… l’ultima casa di tutti.
Vagamente, confusamente, Jerome A. Webster si domandò se essi capissero… se essi capissero la vita e la morte… se essi capissero cosa significava il corpo di Nelson F. Webster immobile là, nella bara, e la presenza dell’uomo dalla veste nera, con il libro in mano, che intonava parole sopra quel corpo.
Nelson F. Webster, quarto dei Webster che avevano vissuto su quella terra, era vissuto e morto nella tenuta, senza quasi muoversi, e adesso se ne stava andando verso l’eterno riposo in quel luogo che il primo Webster aveva preparato per gli altri Webster… per quella lunga linea di discendenti, nebulosi e impalpabili nel fiume del tempo, che sarebbero vissuti là, e che avrebbero amato le cose e i modi e la vita che il primo John J. Webster aveva stabilito.
Jerome A. Webster sentì un rinnovato nodo stringergli la gola, e un leggero tremito gli percorse il corpo, e non era la nebbia che scendeva fitta dal cielo e avvolgeva tutte le cose a provocare quel brivido di gelo. Per un istante gli occhi gli bruciarono più forte, e la bara si confuse, tremolò e scomparve alla sua vista, e le parole che l’uomo vestito di nero stava pronunciando si mescolarono al mormorio del vento che spirava tra i pini alti e immobili, sentinelle immutabili per vegliare i morti. Nella sua mente sfilò la processione lenta e veloce dei ricordi… il ricordo di un uomo dai capelli grigi che camminava sui campi e le colline, respirando felice la brezza leggera dell’alba, e il ricordo dello stesso uomo in piedi, davanti al fuoco scoppiettante del caminetto, con un bicchiere di liquore tra le mani.
Orgoglio… l’orgoglio della terra e della vita, e l’umiltà e la grandezza che una vita serena genera nell’animo umano. La soddisfazione del tempo da trascorrere senza assilli, e la sicurezza dello scopo. L’indipendenza data dalla sicurezza di ciò che non passa, il calore dato dall’ambiente familiare e amato, la libertà, la libertà vera degli ampi spazi, dei vasti acri di terra viva e fertile.
Thomas Webster gli stava tirando gentilmente la manica.
«Papà,» stava mormorando. «Papà.»
Il servizio funebre era finito. L’uomo vestito di nero aveva chiuso il libro. Sei robot si fecero avanti all’unisono, sollevarono da terra la bara.
Lentamente, i tre seguirono la bara nella cripta, si fermarono e rimasero immobili mentre i robot la facevano entrare nel loculo, e poi chiudevano la piccola porta e vi attaccavano sopra la targa sulla quale era scritto:
Era tutto qui. Solo il nome e le date. E questo, pensò d’un tratto Jerome A. Webster, questo era sufficiente. Perché là, su quella targa, non v’era bisogno d’altro, di niente altro. Questo era tutto ciò che avevano gli altri. Gli altri, i nomi che narravano la storia della famiglia… a cominciare da William Stevens, 1920-1999. Pa’ Stevens, lo avevano chiamato, ricordò Webster. Padre della moglie di quel primo John J. Webster, anche lui un nome e due date nella cripta… 1951-2020. E accanto a lui suo figlio, Charles F. Webster, 1980-2060. E suo figlio, John J. II, 2004-2086. Webster ricordava John J. II… un nonno che si addormentava accanto al caminetto, con la pipa penzolante dalle labbra, sempre in pericolo di incendiarsi i baffi.
Lo sguardo di Webster si posò su un’altra targa. Mary Webster, la madre del bambino che gli stava accanto. No, non doveva pensare così. Non era più un bambino. Dimenticava sempre che Thomas, adesso, aveva vent’anni, e tra un paio di settimane, al massimo, sarebbe partito per Marte, come anche lui era partito per Marte, negli anni della sua gioventù.
Tutti qui, insieme, pensò Webster. I Webster, con le loro mogli e i loro figli. Insieme nella morte, com’erano stati insieme nella vita, insieme in quella cripta, addormentati nell’orgoglio e nella sicurezza del bronzo e del marmo, con i pini visibili e mormoranti, fuori, e la figura simbolica ritta sopra la porta che il tempo aveva colorito di una patina verdognola.
I robot aspettavano, in piedi, silenziosi, ora che avevano eseguito il loro compito.
Sua madre lo guardò.
«Adesso sei tu il capo della famiglia, figlio mio,» gli disse.
Le tese le braccia e l’attirò al suo fianco, e la strinse. Capo della famiglia… di quello ch’era rimasto della famiglia, piuttosto. Erano soltanto tre, ora. E suo figlio tra poco sarebbe partito, sarebbe andato su Marte. Ma sarebbe ritornato. Tornato con una moglie, forse, e la famiglia sarebbe andata avanti. No, la famiglia non sarebbe rimasta così, ridotta a tre sole persone. Tanti locali della grande casa non sarebbero rimasti chiusi e scuri per sempre, com’erano chiusi e oscuri ora. C’era stato un tempo in cui la grande casa aveva pulsato della vita e dei rumori e della felicità di dodici membri della famiglia, che avevano vissuto tutti nei loro appartamenti separati, ma sotto il medesimo tetto. Quel tempo sarebbe ritornato. Ne era certo. Lo sapeva.
I tre voltarono le spalle alle tombe, lasciarono la cripta, percorsero il vialetto che portava alla casa, la casa che torreggiava come un immenso fantasma grigio nella nebbia.
Il fuoco scoppiettava nel caminetto, e il libro era posato sulla sua scrivania. Jerome A. Webster lo prese tra le mani, e rilesse ancora una volta il titolo:
«Fisiologia Marziana, Con Particolare Riferimento al Cervello», di Jerome A. Webster.
Jerome A. Webster, Dottore in Medicina. Il titolo accademico era riportato in basso, dopo il suo nome.
Voluminoso e autorevole… il lavoro di una vita intera. Si ergeva come un gigante, praticamente unico nel suo campo. Basato sui dati raccolti durante quei cinque anni di epidemia, su Marte… anni durante i quali lui aveva lavorato giorno e notte, duramente, senza prendersi tregua, riposando solo quando il fisico era giunto all’estremo limite di resistenza, e come lui i suoi colleghi della missione medica della Commissione Mondiale, mandati per un’opera di solidarietà umana sul pianeta amico.
Si udì battere leggermente alla porta.
«Avanti,» disse.
La porta si aprì, ed entrò un robot.
«Il suo whisky, signore.»
«Grazie, Jenkins,» disse Webster.
«Il pastore, signore,» disse Jenkins, «Se ne è andato ora.»
«Oh, sì. Presumo che tu abbia provveduto a tutto.»
«Certo, signore. Gli ho dato il solito compenso e gli ho offerto da bere. Ha rifiutato di bere.»
«Questo è stato un errore di stile, Jenkins,» gli disse Webster. «I pastori non bevono alcolici.»
«Sono spiacente, signore. Non sapevo. Il pastore mi ha chiesto di chiederle di andare in chiesa, qualche volta.»
«Eh?»
«Io gli ho detto, signore, che lei non va mai da nessuna parte.»
«Hai dato una risposta giustissima, Jenkins,» disse Webster. «Nessuno di noi va mai da nessuna parte.»
Jenkins si diresse verso la porta, si fermò prima di raggiungerla, si voltò.
«Se il signore permette, il servizio funebre nella cripta è stato davvero commovente. Suo padre era un essere umano molto nobile, il più nobile che mai ci sia stato. I robot hanno detto che il servizio funebre è stato degno di lui. Dignitoso ed elevato, signore. Suo padre ne sarebbe stato molto contento, signore, se l’avesse saputo.»