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«Mio padre,» disse Webster. «Sarebbe stato ancor più contento di sentirti dire questo, Jenkins.»

«Grazie, signore,» disse Jenkins, e uscì.

Webster sedette con il whisky e il libro e il fuoco… avvertì intorno a sé la comoda sicurezza di quella stanza così familiare, sentì quelle calde pareti chiudersi intorno a lui, rinserrarlo in un abbraccio protettivo e gentile, avvertì il senso di rifugio che quella casa antica gli dava.

Era la sua casa, la vera casa. Era stata la casa dei Webster dal giorno in cui il primo John J. era venuto in quel luogo e aveva costruito la prima ala, un’ala dalla quale la grande casa dei Webster si era poi sviluppata. John J. aveva scelto quel luogo perché c’era un torrente ricco di trote, o, per lo meno, così aveva sempre detto. Ma doveva esserci qualcosa di più, un motivo più forte, più grande. Doveva esserci stato qualcosa di più, disse Webster.

O forse, all’inizio, il motivo era stato semplicemente il torrente ricco di trote. Il torrente con le sue trote e gli alberi e i prati, e il pendio roccioso verso il quaale saliva la nebbia, ogni mattina, levandosi dal fiume e superando il pendio e riversandosi sui prati e sugli alberi e sulla casa. Forse il resto, tutto il resto, era cresciuto, cresciuto gradualmente nel corso degli anni, con la lunga unione della famiglia con la terra, come un albero cresceva nel corso degli anni, diventando sempre più un tutto unico con la terra che dava alimento alle sue radici. Forse era stato il tempo a produrre ciò che adesso esisteva, quell’intima associazione tra la famiglia e la terra, ogni seme e ogni zolla e ogni filo d’erba e ogni grano di roccia, tanto che oggi la tenuta era impregnata di una cosa che somigliava, ma non era uguale, alla tradizione. Una cosa che faceva di ogni albero, di ogni sasso, di ogni palmo di terra un albero dei Webster, un sasso dei Webster, una zolla di terra dei Webster. Tutto nasceva dalla famiglia, e la famiglia ormai nasceva dalla terra.

John J., il primo John J., era venuto dopo la caduta delle città, dopo che gli uomini avevano abbandonato per sempre i loro formicai del ventesimo secolo, si erano liberati dell’istinto tribale di stringersi gli uni agli altri in una caverna o in una radura per difendersi da un comune nemico o da una paura comune. Un istinto che era passato di moda, perché non c’erano più nemici e non c’erano più paure. L’uomo si eraa ribellato all’istinto gregario, all’istinto del gregge che le condizioni economiche e sociali gli avevano imposto nei secoli passati. Una nuova sicurezza e una nuova autosufficienza e una nuova ricchezza avevano permesso di spezzare le catene del tempo, di sfuggire al giogo della consuetudine, di essere, finalmente, liberi dai vincoli del passato.

Il processo era cominciato nel ventesimo secolo, più di duecento anni prima, quando gli uomini si erano trasferiti, in numero sempre crescente, in case di campagna, per respirare dell’aria pura e godere un po’ di spazio libero e conoscere una vita più serena e gentile di quella offerta dalla città. Perché l’esistenza comune e convulsa, nell’aria inquinata e negli spazi angusti, dove non si poteva muovere un passo senza urtare il vicino, non aveva potuto dare all’uomo neppure una minima parte di ciò che aveva trovato lasciando le città.

E adesso erano giunti al risultato finale di quel processo, e qui lui poteva vedere questo risultato. Una vita tranquilla. Una pace che poteva giungere soltanto con le cose buone e sane. Il genere di vita che l’uomo aveva sognato di ottenere per tanto tempo, che aveva desiderato più di ogni altra cosa. Un’esistenza feudale, l’antica vita del castello, fondata sulle antiche case di famiglia e su acri e acri di terra libera e fertile, un’esistenza feudale, nella quale i feudatari occupavano il castello al centro della campagna, e l’energia atomica forniva tutto ciò ch’era necessario per alimentarli, e i robot avevano preso il posto dei servi.

Webster sorrise, guardando il caminetto con le sue braci ardenti e scoppiettanti, e le fiamme che salivano a lambire la pietra annerita. Braci di legna, di legna vera. Era un anacronismo, se ne rendeva conto, ma era buono… qualcosa che l’Uomo aveva portato con sé dalle caverne, che l’Uomo non aveva mai voluto abbandonare in nessun momento del suo progresso. Inutile, forse, perché il riscaldamento automatico era migliore… ma così era più piacevole. Non si poteva stare seduti a guardare l’energia atomica in azione, e a sognare e costruire castelli cangianti tra le fiamme che guizzavano.

Perfino la cripta, là fuori, dove avevano portato suo padre, in quello stesso pomeriggio… anche quella faceva parte della famiglia. Era la famiglia. Un tutto unico con il resto. L’orgoglio malinconico e la vita libera e la pace. Ai vecchi tempi, i morti venivano sepolti in grandi cimiteri, uno accanto all’altro, estranei a fianco di estranei, com’era stato in vita, e così in morte…

Non va mai da nessuna parte.

Ecco cos’aveva detto Jenkins al pastore.

Ed era vero. Perché quale bisogno c’era di andare altrove? Di lasciare la casa, la terra, l’aria della loro vita? Là c’era tutto. Girando un quadrante, si poteva parlare a chiunque, faccia a faccia, si poteva andare, se non fisicamente, almeno con la sensazione, dovunque si desiderasse. Si poteva andare a teatro oppure ascoltare un grande concerto oppure consultare gli scaffali di una biblioteca che si trovava, in realtà, dall’altra parte del mondo. Si poteva concludere qualsiasi affare senza bisogno di alzarsi dalla propria poltrona.

Webster bevve il suo whisky, e poi si voltò verso la macchina a disco che si trovava accanto alla sua scrivania.

Il suo dito formò una sequenza di numeri, e la stanza parve fondersi e sparire intorno a lui… la sensazione era reale, autentica, vera. Rimase la sedia sulla quale egli sedeva, rimase una parte della scrivania, rimase una parte della macchina a disco, ed era tutto.

La sedia era sul fianco di una collina coperta d’erba dorata e chiazzata d’alberi nodosi, piegati dai molti venti di molte stagioni fredde e roventi, una collina che scendeva fino a un lago incastonato, come un alveare nell’abbraccio dei rami di un albero, nel grembo degli speroni arditi di montagne purpuree. Gli speroni delle montagne, nereggianti delle lunghe zebrature di lontane pinete bluastre, salivano formando scale ardite e asperrime, abbracciandosi sullo sfondo del cielo nelle guglie aguzze biancheggianti di nevi dai riflessi azzurrini riverberanti di lontani orizzonti, guglie altissime che spezzavano l’armonia del cielo formando una audace, impossibile chiostra di denti diseguali e aguzzi.

Il vento parlava con voce aspra di cose lontane e dimenticate, passando con cento fruscii tra gli alberi acquattati sulle pendici dei monti, accarezzando l’erba alta e folta e dorata, passando sopra di essa a folate improvvise, audaci. Gli ultimi bagliori del sole al tramonto accendevano scintille di fuoco, bianco purpureo e azzurrato, dalle vette lontane.

Solitudine e grandezza, la grande distesa maestosa della terra viva, l’occhio sfavillante del lago, le lunghe ombre sulle remote catene dei monti, ombre aguzze e taglienti, come lame.

Webster si appoggiò allo schienale della sedia, comodamente, fissando con occhi sognanti quelle vette lontane.

Una voce disse, uscendo dall’ombra, alle sue spalle:

«Posso entrare?»

Una voce dolce, vibrante, completamente non umana, aliena. Ma una voce che Webster conosceva.

Annuì lentamente.

«Ma certo, Juwain. Certo.»

Girò il capo e vide l’elaborato piedistallo con la figura villosa, dagli occhi dolcissimi, del marziano che vi stava sopra. Dietro il piedistallo s’intravvedevano le massicce sagome indistinte di altri mobili alieni, i mobili così diversi da quelli che la mente umana aveva saputo creare negli anni della sua storia, i mobili indistinti che appartenevano a quella casa che si trovava lassù, su Marte.