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Ma era stato soltanto un disperato sforzo di volontà a impedirgli, negli ultimi secondi che avevano preceduto il decollo dell’astronave, di scendere dalla terrazza, di correre sul campo come un folle, gridando a Thomas di tornare indietro, gridando a Thomas di non andare.

E questo, naturalmente, non sarebbe servito a niente. Sarebbe stato un esibizionismo umiliante e avvilente… una delle cose che i Webster non facevano, non potevano fare.

Dopotutto, si disse, un viaggio su Marte non era una grande avventura, non più, almeno. C’era stato un tempo in cui l’impresa era stata grande e rischiosa, ma quel tempo era passato per sempre. Anche lui, anche lui aveva fatto un viaggio su Marte, quando era stato più giovane, ed era rimasto lassù per cinque lunghi anni. Questo era stato… gli mancò il respiro, quando ci pensò… questo era stato quasi trenta anni prima.

Il vociare e gli altri rumori dell’atrio lo colpirono con una violenza quasi fisica, quando il robot inserviente gli aprì la porta, e in quel vociare scorreva una venatura impalpabile di qualcosa che era quasi terrore. Per un attimo esitò, e poi entrò, con decisione. La porta si chiuse silenziosamente alle sue spalle.

Rimase vicino alla parete, per evitare gli altri, e camminando lentamente si avvicinò a una poltrona sistemata in un angolo. Sedette e si appoggiò allo schienale, affondando nei soffici cuscini, guardando la fauna umana che gremiva, vociante e attiva, la grande sala.

Gente rumorosa, attiva, gente dal viso diverso, ostile. Stranieri… tutti, dal primo all’ultimo. Non un solo viso che lui conoscesse. Gente che andava in molti posti. Partiva per i pianeti. Era ansiosa di andare, di lasciare la Terra. Si preoccupava ansiosamente degli ultimi particolari, degli ultimi preparativi. Gridava e vociava e chiamava e correva.

Gente che si muoveva affannosamente, tumultuosamente, di qua e di là, senza fermarsi.

In quella folla anonima apparve un volto familiare. Webster si protese avanti.

«Jenkins!» gridò, e si pentì immediatamente di avere gridato, anche se nessuno pareva essersene accorto.

Il robot avanzò verso di lui, si fermò davanti a lui.

«Avverti Raymond,» disse Webster, «Che devo tornare immediatamente. Digli di portare l’elicottero davanti all’uscita, immediatamente.» Calcò l’accento su quella parola, immediatamente, che aveva quasi il suono e il sapore della salvezza.

«Spiacente, signore,» disse Jenkins, «Ma non possiamo partire subito. I meccanici hanno scoperto una perdita nel motore atomico. Stanno cambiando il pezzo. Ci vorranno diverse ore.»

«Certamente questo si sarebbe potuto rimandare a qualche altro momento più propizio,» disse Webster, irritato.

«Il meccanico ha detto di no, signore,» gli disse Jenkins. «Il motore potrebbe saltare da un momento all’altro. L’intera carica di energia…»

«Sì, sì,» ammise Webster. «Immagino che tu abbia ragione.»

Rigirò il cappello tra le mani, nervosamente.

«Mi è venuta in mente una cosa,» disse, finalmente. «Una cosa che devo fare. Una cosa che non può attendere. Devo tornare a casa. Non posso aspettare diverse ore.»

Nervosamente, si mosse sulla sedia, rimanendo in equilibrio precario sul bordo di essa, fissando con occhi sbarrati la folla che si assiepava intorno a lui.

Volti… volti…

«Forse il signore potrebbe usare il visifono per chiamare qualcuno, a casa,» suggerì Jenkins. «Uno dei robot potrebbe forse essere in grado di fare quanto lei desidera, signore. C’è una cabina visifonica…»

«Aspetta, Jenkins,» disse Webster. Esitò per un momento. «Non c’è niente da fare, a casa. Niente di niente. Ma io devo tornarci. Non posso restare qui. Se sarò costretto a restare, credo che impazzirò. Ho avuto paura lassù, sulla terrazza. Qui sono confuso e sconvolto. Ho una sensazione… una sensazione strana e terribile. Jenkins, io…»

«Capisco, signore,» disse Jenkins. «Anche suo padre la aveva.»

Webster spalancò gli occhi.

«Mio padre?»

«Sì, signore, era per questo che non andava mai da nessuna parte. Aveva circa la sua età, signore, quando se ne è reso conto. Ha tentato di fare un viaggio in Europa e non c’è riuscito. È arrivato a metà strada ed è tornato indietro. Aveva un nome per definire quanto gli era capitato.»

Webster rimase seduto, sconvolto, in silenzio.

«Un nome per definire questa cosa,» disse poi, dopo una lunga pausa. «Certo che esiste un nome per definirla. Mio padre l’aveva trovato. Dimmi, Jenkins… anche mio nonno ne soffriva?»

«Non saprei, signore,» rispose Jenkins. «Io sono stato creato solo quando suo nonno era già anziano. Ma è possibile. Neppure lui si muoveva mai, signore.»

«Tu capisci, allora,» disse Webster. «Sai quello che provo. Mi sembra di stare male… starò male, Jenkins, starò male fisicamente, se dovrò restare qui ancora per qualche tempo. Vedi se ti è possibile noleggiare un elicottero… qualsiasi cosa, pur di tornare a casa.»

«Sì, signore,» disse Jenkins.

Si voltò e fece per andarsene, ma Webster lo richiamò.

«Jenkins, nessun altro sa di questa cosa? C’è qualcuno…»

«No, signore,» disse Jenkins. «Suo padre non ne ha mai fatto cenno, e io ho avuto l’impressione che non gli avrei fatto piacere a parlarne.»

«Grazie, Jenkins,» disse Webster.

Webster sprofondò di nuovo nella poltrona, e si sentì desolato e solo in un ambiente estraneo e ostile. Solo in un atrio pieno di folla vociante, che pulsava di vita… e quella solitudine lo dilaniava, lo lasciava vuoto e stanco e debole e inerte.

Nostalgia di casa. Nostalgia di casa, pura e semplice, vergognosa e umiliante, si disse. Una cosa che provano i bambini quando lasciano la loro casa per la prima volta, quando per la prima volta escono ad affrontare il mondo.

C’era anche una parola scientifica per definire quella cosa, agorafobia, il terrore morboso di trovarsi al centro di uno spazio aperto… una parola che derivava dal greco, e la cui radice era la paura… letteralmente, paura della piazza.

Se lui attraversava l’atrio ed entrava nella cabina visifonica, poteva chiamare casa sua, parlare con sua madre o con uno dei robot… o, meglio ancora, poteva starsene a sedere, a guardare la casa, in attesa del ritorno di Jenkins.

Cominciò ad alzarsi, e poi sprofondò di nuovo nella poltrona. Era inutile. Parlare con qualcuno o stare a guardare la casa non era come esserci davvero. Non avrebbe potuto sentire il profumo dei pini nell’aria cristallina dell’inverno, né udire lo scricchiolio familiare della neve che copriva i viali e si frangeva sotto i suoi piedi, né tendere una mano per toccare una delle grandi querce che crescevano nei viali. Non avrebbe potuto sentire il calore del focolare, né la sensazione certa e rassicurante del possesso, né la consapevolezza di essere tutt’uno con il terreno conosciuto e amato e con tutte le cose che vi crescevano sopra.

Eppure… forse lo avrebbe aiutato a vincere quel terrore. Non molto, forse, ma un poco. Fece di nuovo per alzarsi dalla poltrona, e si immobilizzò, d’un tratto. Quei pochi passi che portavano alla cabina racchiudevano il terrore, un terrore tremendo, invincibile. Se avesse percorso quei pochi passi, avrebbe dovuto correre. Correre per fuggire da quegli occhi vigili che lo fissavano, da quei suoni innaturali che lo circondavano, dalla tremenda agonia che gli dava la presenza di quei volti estranei.