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Lui, Jerome A. Webster, era andato su Marte quando era stato giovane, e allora non aveva sentito, non aveva neppure sospettato l’esistenza del veleno psicologico che scorreva nelle sue vene. Come Thomas, che era partito per Marte pochi mesi prima. Ma trent’anni di vita isolata, tranquilla e serena, in quell’eremo che i Webster chiamavano casa, avevano fatto affiorare quel veleno, lo avevano rafforzato senza che lui neppure se ne accorgesse. In realtà, non aveva avuto alcuna occasione per accorgersene.

Adesso era chiaro il processo che aveva portato alla superficie quel veleno… era chiaro come il cristallo più puro. L’abitudine e la ripetizione di certe azioni, veri schemi mentali profondamente radicati, e un’associazione mentale tra la felicità e certe cose… cose che non avevano alcun valore autentico in se stesse, ma alle quali era stato attribuito un valore, un valore definito e concreto, un valore stabilito da una famiglia nel corso di cinque generazioni.

Come poteva meravigliarsi che gli altri posti, tutti gli altri posti, sembrassero alieni, più che le distese degli spazi sconosciuti? Come poteva meravigliarsi che gli altri orizzonti racchiudessero un brivido di orrore nella loro curva?

E nessuno poteva farci niente… niente, cioè, a meno che qualcuno non avesse abbattuto tutti gli alberi e non avesse incendiato la casa e non avesse cambiato il corso del torrente. E neppure questo, forse, sarebbe bastato… neppure questo…

Il visifono ronzò, e Webster schiuse le dita, sollevò il capo, allungò la mano e premette il pulsante.

La stanza diventò una distesa di luce bianca, ma nessuna immagine si formò. Una voce disse:

«Chiamata segreta. Chiamata segreta.»

Webster aprì un pannello, sul fianco della macchina, fece girare due dischi, udì il ronzio dell’energia immessa in uno schermo che isolava completamente la stanza.

«Chiamata segreta stabilita,» disse.

La luce bianca scomparve e un uomo apparve davanti a lui, seduto alla scrivania. Un uomo che Webster aveva già visto molte volte nei discorsi televisivi, e sul giornale del mattino.

Henderson, presidente della Commissione Mondiale.

«Ho ricevuto una chiamata da Clayborne,» disse Henderson.

Webster annuì senza parlare.

«Mi ha detto che lei si è rifiutato di andare su Marte.»

«Non ho rifiutato,» disse Webster. «Quando Clayborne ha tolto la comunicazione, la questione era ancora aperta. Gli avevo detto che mi era impossibile andare, ma lui ha rifiutato questa spiegazione, non ha capito, apparentemente.»

«Webster, lei deve andare,» disse Henderson. «Lei è l’unico uomo al mondo che conosca a sufficienza il cervello marziano per realizzare questa operazione. Se si trattasse di un’operazione più semplice, forse basterebbe qualche altro chirurgo. Ma in questo caso, lei è l’unico in grado di riuscire.»

«Può essere vero.» disse Webster. «Ma…»

«Non si tratta soltanto di salvare una vita,» spiegò Henderson. «Anche se qui si tratterebbe della vita di un personaggio famoso come Juwain. La questione è ancora più importante. Juwain è suo amico, Webster. Forse le ha accennato alla sua scoperta.»

«Sì,» disse Webster, ricordando il colloquio di pochi mesi prima, e quelli ancora più recenti. «Sì, mi ha accennato qualcosa. Una nuova concezione filosofica.»

«Una concezione,» dichiarò Henderson, «Della quale non possiamo fare a meno. Una concezione che trasformerà radicalmente il sistema solare, che gli darà nuova forma e nuove basi, che farà progredire l’umanità di centomila anni nello spazio di due generazioni. Una nuova direzione per i nostri scopi, che ci farà mirare a una méta che fino a oggi non abbiamo neppure sospettato, che fino a oggi neppure sognavamo. Una méta la cui esistenza ci era del tutto ignota. Una verità completamente, realmente nuova, capisce? Una verità che, fino a oggi, nessuno aveva sospettato.»

Le mani di Weebster strinsero il bordo della scrivania con forza, con tanta forza che le nocche diventarono esangui.

«Se Juwain muore,» disse Henderson, «Questa concezione filosofica morirà con lui. E forse l’avremo perduta per sempre.»

«Ci proverò,» disse Webster. «Ci proverò…»

Lo sguardo di Henderson era duro.

«È tutto quello che può fare?»

«È tutto quello che posso fare,» disse Webster.

«Ma, caro amico, deve esserci una ragione per il suo comportamento! Una spiegazione…»

«Nessuna spiegazione,» disse Webster. «Che io voglia dare.»

Deliberatamente, allungò la mano e tolse la comunicazione.

Webster era seduto alla scrivania e teneva le mani tese davanti a sé, e le guardava. Mani capaci, abili, mani miracolose, a volte. Mani che sapevano tenere i complicati ferri chirurgici. Mani che potevano salvare una vita, se lui fosse riuscito a portarle su Marte. Mani che avrebbero potuto salvare per il sistema solare, per l’umanità, per i marziani, un’idea… una nuova idea… che li avrebbe fatti progredire di centomila anni nelle due prossime generazioni.

Ma quelle erano mani incatenate da una fobìa nata da quella sua vita serena e tranquilla. Decadenza… una decadenza stranamente bella… e mortale.

L’uomo aveva abbandonato le città brulicanti di vita, i formicai umani, duecento anni prima. Si era liberato degli antichi nemici e delle antiche paure che lo avevano tenuto legato intorno al fuoco dell’accampamento comune, aveva lasciato alle spalle gli spettri e i demoni e i lupi mannari che avevano camminato al suo fianco dai tempi remoti delle caverne.

Eppure… eppure…

Ora si trovava in un altro formicaio. Non un formicaio fisico, ma un formicaio mentale. Non c’era più la soffocante presenza di milioni di altri esseri umani, eppure… qui c’era il fuoco di un accampamento psicologico, un falò che ancora teneva incatenato l’uomo nel raggio della sua luce.

Eppure, pensò Webster, lui doveva lasciare quel fuoco. Come gli uomini avevano fatto con le città, due secoli prima, lui doveva voltare le spalle a quel nuovo formicaio, doveva andare. E non doveva voltarsi indietro. Non doveva lanciare un’ultima occhiata.

Lui doveva andare su Marte… o, almeno partire per Marte. Su questo non c’era alcun dubbio. Lui doveva andare.

Non sapeva, certo, se avrebbe potuto sopravvivere al viaggio, se sarebbe stato nelle condizioni di eseguire l’intervento, una volta arrivato. Non poteva dirlo. Si chiese, confusamente, se l’agorafobia poteva essere mortale. Nelle sue forme estreme, probabilmente lo era.

Allungò una mano per suonare il campanello, poi esitò. Era inutile dire a Jenkins di fare i bagagli. Avrebbe fatto da solo… sarebbe servito a tenerlo occupato, fino all’arrivo dell’astronave.

Andò nella camera da letto, prese una valigia dallo scaffale più alto di un armadio, e vide che era coperta di polvere. Cercò di soffiare via la polvere, ma la polvere rimase. Era là da troppi anni.

Mentre infilava nella valigia le cose indispensabili, la stanza cominciò a opporsi a quanto faceva, cominciò a discutere, a parlare in quella lingua muta che gli oggetti inanimati ma familiari usano per conversare con un uomo.

«Non puoi andare,» diceva la stanza. «Non puoi andare. Non mi puoi lasciare.»

E Webster ribatté, in tono per metà supplichevole, per metà colpevole:

«Io devo andare. Ma non capisci? È un amico, un vecchio amico. Tornerò indietro.»

Quando ebbe terminato di fare la valigia, Webster ritornò nel suo studio, si lasciò cadere sulla sedia.

Lui doveva andare, eppure non poteva andare. Ma quando l’astronave sarebbe arrivata, quando sarebbe arrivato il momento, lui sapeva, sapeva che avrebbe dovuto uscire dalla casa, sapeva che avrebbe dovuto andare verso l’astronave in attesa.

Doveva costringersi a rafforzare la sua determinazione. Doveva convincere la sua mente dell’irrevocabilità di quanto stava per fare. Doveva incanalare i suoi pensieri lungo binari rigidi, doveva escludere qualsiasi pensiero, qualsiasi pensiero che non fosse quello della sua partenza.