«Non è stata colpa di suo nonno,» disse Grant. «Lui ha tentato. L’agorafobia è una cosa che l’uomo non può combattere…»
Webster, con un gesto, interruppe le parole di Grant.
«Ormai le cose sono andate così. Non possiamo far tornare il passato, per cambiarlo come ci aggrada. Dobbiamo accettare quello che è stato, e partire da questo punto di partenza. E dato che la colpa è stata della mia famiglia, dato che è stato mio nonno a…»
Grant spalancò gli occhi, scosso dal pensiero che gli era venuto in mente.
«I cani! Ecco perché…»
«Sì, i cani,» disse Webster.
Da molto lontano, dal torrente, venne un suono lamentoso, uno strano pianto che si univa al vento che mormorava tra gli alberi.
«Un procione,» disse Webster. «I cani lo sentiranno e faranno di tutto per uscire.»
Il richiamo giunse di nuovo, e parve più vicino… ma forse si trattava soltanto di uno scherzo dell’immaginazione.
Webster s’era rialzato, sulla poltrona, e ora sedeva proteso in avanti, e fissava le fiamme che guizzavano nel caminetto, e che mandavano strani bagliori tutt’intorno.
«Dopotutto, perché no?» chiese. «Un cane possiede una personalità. Se ne può rendere conto vedendo ogni cane che incontra. È una cosa che si avverte, che esiste. Non ci sono due cani perfettamente uguali, come carattere e come comportamento. E tutti i cani sono intelligenti, in misura maggiore o minore. E si tratta delle due sole cose necessarie… una personalità consapevole e una certa misura d’intelligenza.
«I cani non hanno mai avuto una possibilità equa di progredire, ecco tutto. Avevano due gravi svantaggi. Non parlavano e non potevano camminare eretti, e, non potendo camminare eretti, non hanno avuto la possibilità di sviluppare mani. Se non ci fossero questi due elementi, la parola e le mani, noi potremmo essere cani e i cani potrebbero essere uomini.»
«Non avevo mai considerato la cosa sotto questo aspetto,» disse Grant. «E non avevo mai considerato i suoi cani come una razza pensante…»
«No,» disse Webster, e c’era una traccia di amarezza nelle sue parole. «No, certo. Lei considerava i cani come li considera il resto del mondo. Una curiosità, uno spettacolo da circo, un passatempo divertente e bizzarro. La vecchia idea del fenomeno da baraccone, del cane sapiente… che, questa volta, sa perfino parlare.
«Ma non è tutto qui, Grant. Le giuro che non è tutto qui. Fino a questo punto della strada, l’Uomo è andato avanti da solo. È stato una specie intelligente e pensante, che ha camminato da sola sulla via del tempo e del progresso. Pensi! Pensi a quanto sarebbe stata più rapida e più breve la strada, se invece di una sola specie ce ne fossero state due… due razze pensanti e intelligenti e amiche, unite da vincoli antichi e spinte da un comune impulso di progresso, decise a vivere e a lavorare insieme. Perché, vede, due razze diverse non penserebbero allo stesso modo. Avrebbero due modi di vedere il mondo, due concetti della realtà completamente diversi, da confrontare tra loro, da discutere per un comune fine di progresso. Dove la mente di una razza non potrebbe arrivare, ci arriverebbe la mente dell’altra razza. È l’antica storia delle due teste spinte da un solo motivo, e capaci di produrre un lavoro intellettuale infinitamente superiore. Per avere una buona medaglia, Grant, ci vogliono due facce.
«Rifletta, Grant, su quello che potremmo avere. Una mente diversa da quella umana, ma capace di lavorare con la mente umana, e disposta a farlo. Questa mente potrebbe vedere e comprendere cose che l’uomo non sa e non può vedere.»
Tese le mani verso le fiamme crepitanti del focolare, mani dalle lunghe dita, con le nocche ossute.
«I cani non sapevano parlare, Grant, e io ho dato loro la parola. Non è stato facile, perché la lingua e la gola di un cane non sono state fatte per parlare. Ma la chirurgia ha operato il prodigio… dapprima artificialmente, facendo violenza sulla natura… la chirurgia e il trapianto dei tessuti. Ma adesso… adesso spero, credo… certo è troppo presto per dirlo, ma…»
Grant si protese avanti, teso, ansioso.
«Lei intende dire che i cani sono in grado di trasmettere ai loro figli i mutamenti che lei ha operato. Lei intende dire che esistono le prove dell’acquisizione di un carattere ereditario per le correzioni da lei apportate all’opera della natura.»
Webster scosse il capo.
«È ancora troppo presto per affermarlo con certezza. Fra vent’anni, forse, le potrò dare una risposta.»
Prese la bottiglia di brandy dal tavolo, la tese verso il bicchiere di Grant.
«Grazie,» disse Grant.
«Sono un ospite davvero deplorevole,» gli disse Webster. «Lei avrebbe dovuto servirsi da solo.»
Sollevò il bicchiere controluce, in modo che i guizzi del focolare facessero scintillare il liquido ambrato.
«Il materiale sul quale ho lavorato era buono. Un cane è intelligente. Più intelligente di quanto lei creda. Normalmente, il cane medio riconosce almeno una cinquantina di parole. Non è insolito che ne riconosca un centinaio. Se aggiunge altre cento parole, avrà già un vocabolario essenziale ed efficace. Lei avrà notato, immagino, che Nathaniel si serve soltanto di parole semplici. Praticamente, le parole essenziali della nostra lingua.»
Grant annuì.
«Sì, quasi tutte di due, tre sillabe al massimo. Mi ha detto che c’erano molte parole che lui non sapeva dire.»
«Ci sono tante altre cose da fare,» disse Webster. «Tante, tante altre cose. Leggere, per esempio. Un cane non vede nel modo in cui io e lei vediamo. Ho fatto degli esperimenti con delle lenti di contatto… per correggere la vista canina, in modo che i loro occhi potessero vedere come i nostri. E se questo esperimento non avrà successo, esiste sempre un altro sistema. L’uomo deve riuscire a comprendere la vista dei cani… deve vedere con i loro occhi, per stampare dei libri che un cane possa leggere.»
«E i cani,» domandò Grant, «Che cosa ne pensano?»
«I cani?» disse Webster. «Ci creda o no, Grant, loro si divertono un mondo. Vivono la loro vita in perfetta felicità.»
Guardò nel focolare, e i suoi occhi fissarono le fiamme cangianti, e per qualche istante rimase in silenzio.
Preceduto da Jenkins, Grant salì le scale per raggiungere la sua camera da letto, ma quando uomo e robot passarono davanti a una porta semiaperta una voce li chiamò.
«È lei, straniero?»
Grant si fermò, si girò di scatto, cercando di scoprire la provenienza di quella voce.
Jenkins disse, in un mormorio sommesso:
«È il vecchio padrone, signore. Spesso non riesce a prendere sonno.»
«Sì,» disse Grant, a voce alta.
«Ha sonno?» domandò la voce.
«Non molto,» rispose Grant.
«Allora entri. Può restare con me per un poco,» disse il vecchio.
Thomas Webster era seduto sul letto, con la schiena appoggiata al cuscino, e una vecchia berretta da notte a striscie calcata fin sulla fronte. Vide che Grant la stava guardando, stupito.
«Sto diventando calvo,» disse raucamente il vecchio, «Non mi sento a mio agio se non ho qualcosa che mi copre la testa. E non posso portare il cappello a letto.»
Si rivolse a Jenkins, allora, e disse, con voce aspra:
«Cosa stai facendo lì impalato? Non vedi che ha bisogno di bere qualcosa?»
«Sì, signore,» disse Jenkins, e scomparve.
«Si sieda,» disse Thomas Webster. «Si sieda e mi stia ad ascoltare per un poco. Parlare mi aiuterà a prendere sonno. E, inoltre, non capita tutti i giorni di vedere una faccia nuova, qui.»
Grant obbedì, e si mise a sedere.
«Che cosa ne pensa di quel mio figliolo?» chiese il vecchio.
Grant sobbalzò, sorpreso dall’insolita domanda.
«Be’, credo che sia fantastico… Il lavoro che sta facendo sui cani…»