Il vecchio ridacchiò.
«Lui e i suoi cani! Le ho mai raccontato di quella volta che Nathaniel se la prese con una puzzola? Ma certo che non gliel’ho mai raccontato. Le avrò detto sì e no due parole.»
Passò le mani sulla coperta, accarezzando la stoffa con lunghe dita nervose.
«Ho un altro figlio, sa. Allen. L’ho sempre chiamato Al. Questa notte si trova più lontano dalla Terra di quanto nessun uomo sia mai stato. Sta viaggiando verso le stelle.»
Grant annuì.
«Lo so. L’ho letto. La spedizione ad Alpha Centauri.»
«Mio padre era un medico, un chirurgo,» disse Thomas Webster. «Voleva che diventassi chirurgo anch’io. Credo di avergli spezzato il cuore, quando decisi di non abbracciare la professione medica. Ma se avesse potuto leggere nel futuro, se avesse potuto vivere stanotte, sarebbe stato orgoglioso di noi.»
«Lei non deve stare in pena per suo figlio,» disse Grant. «Lui…»
Il vecchio lo mise a tacere con un’occhiataccia.
«Sono stato io, io, a costruire quell’astronave. L’ho progettata in ogni particolare, l’ho vista nascere e crescere. Se si tratta soltanto di viaggiare nello spazio, se non ci sono altre incognite, andrà dove deve andare, farà in pieno il suo dovere. E il ragazzo è in gamba. Potrebbe pilotare quella bagnarola attraverso tutto l’inferno, come se viaggiasse dalla Terra alla Luna.»
Si curvò verso Grant, rialzandosi ancora di più sul letto, e il copricapo ballonzolò con il movimento, e la punta ricadde sul cuscino.
«E ho un altro motivo per credere che il ragazzo riuscirà ad arrivare lassù e a tornare indietro. Vede, si tratta di una cosa alla quale, sul momento, non dedicai una grande attenzione. Ma poi me ne sono ricordato, ci ho riflettuto sopra, chiedendomi se non avesse potuto significare… bene, se non avesse potuto essere…»
Ansimò un poco, raucamente, per riprendere fiato.
«Guardi che non sono superstizioso.»
«Certo che no,» disse Grant.
«Ci può scommettere, dico, che non sono superstizioso! Ci può scommettere!» esclamò Webster.
«Si tratta forse di un segno?» suggerì Grant. «Di una sensazione, di un presentimento?»
«Niente di tutto questo,» dichiarò il vecchio. «Si tratta di una certezza quasi assoluta, invece. La certezza che il destino dev’essere con me. Che il mio destino è stato, fin dalla nascita, quello di costruire un’astronave capace di percorrere tutta la distanza dalla Terra alle stelle, e ritornare attraverso gli spazi siderali. Che qualcuno, o qualcosa, ha deciso che era il momento, per l’Uomo, di andare fino alle stelle per vedere cosa c’era lassù… e che qualcuno, o qualcosa, ha voluto anche dare una mano all’Uomo, per raggiungere questo scopo.»
«Lei sembra parlare di un fatto realmente accaduto,» disse Grant. «A sentirla, pare quasi che sia accaduto qualcosa di concreto, qualcosa che l’ha convinta dell’inevitabile successo della spedizione.»
«Ci può scommettere anche le stringhe delle scarpe,» disse Webster. «È proprio quello che voglio dire, né più né meno. La cosa è accaduta vent’anni fa, nel prato che si trova davanti a questa casa.»
Si rialzò ancora di più, ansimò raucamente, sbuffò, cercando l’aria che pareva mancare nei suoi polmoni.
«Ero a terra, capisce, con il morale sotto i tacchi. Il sogno si era infranto, e quando un sogno si è infranto, i cocci che vede per terra sono quelli del suo morale. Anni e anni passati per niente. Il principio fondamentale che avevo elaborato, la formula che era nata nel corso di anni e anni di studio e di lavoro, e che avrebbe permesso di raggiungere la velocità necessaria per il volo interstellare… bene, semplicemente, non funzionava. Non funzionava, capisce? E il peggio era che io sapevo di avere quasi ragione. Sapevo che rimaneva soltanto una piccolissima cosa, una sola, una correzione che doveva essere apportata alla teoria. Ma non riuscivo a scoprire l’errore. Cercavo e cercavo, e l’errore era sempre lì, inafferrabile e irridente.
«Così ero seduto là fuori, sul prato, e stavo a compatirmi per il mio insuccesso, e avevo davanti a me un disegno del progetto. Vivevo con quel progetto, capisce? Lo portavo sempre con me, dovunque andassi, forse perché credevo confusamente che, a furia di guardarlo, l’errore mi sarebbe balzato agli occhi così, spontaneamente. Lei sa che a volte questo succede. La mente gioca degli strani scherzi.»
Grant annuì.
«Mentre stavo seduto sul prato, un uomo si avvicinò. Uno dei vagabondi delle colline. Lei sa cos’è un vagabondo delle colline?»
«Certo,» disse Grant.
«Be’, questo tizio si avvicinò a me. Uno strano soggetto, che pareva tutto snodato, e camminava tranquillamente, come se non avesse un solo pensiero al mondo. Si fermò alle mie spalle e guardò sopra la mia spalla e mi chiese cos’era quello che tenevo sulle ginocchia.
«’Un motore interstellare’, gli risposi.
«Lui allungò la mano e prese il disegno e io glielo lasciai prendere. Dopotutto, a che serviva negarglielo? Lui non avrebbe potuto capire una virgola, del progetto, e poi il progetto era inutile, perché il motore non funzionava.
«E allora lui mi restituì il progetto e mi indicò col dito un punto. ’Ecco il suo guaio,’ mi disse. E poi si voltò e se ne andò di gran fretta, e io rimasi seduto a guardarlo come un allocco, troppo sbalordito per dire una sola parola, perfino per chiamarlo, per dirgli di tornare indietro.»
Il vecchio si raddrizzò ancora, rimase immobile sul letto, senza più l’appoggio del cuscino, e guardò la parete, mentre la berretta gli era andata di traverso e gli dava un aspetto buffo e patetico a un tempo. Fuori il vento passava tra le foglie degli alberi, con un sospiro cupo e profondo, un sospiro che ricordava il silenzio e la solitudine di spazi lontani, di alberi secchi, d’inverno vicino, di distese impenetrabili. E in quella stanza bene illuminata parvero discendere delle ombre, anche se Grant sapeva che non c’erano ombre, che non c’erano zone oscure intorno a lui.
«È mai riuscito a ritrovarlo?» chiese Grant.
Il vecchio scosse il capo.
«No. Neppure una traccia,» disse.
Jenkins entrò dalla porta con un bicchiere in mano, un bicchiere che posò sul comodino, accanto al letto.
«Tornerò, signore,» disse a Grant, «Per accompagnarla nella sua camera.»
«Non ce ne sarà bisogno,» fece Grant. «Basta che tu mi dica dove si trova.»
«Come vuole, signore,» disse Jenkins. «È la terza, in fondo al corridoio. Lascerò accesa la luce e la porta socchiusa.»
I due uomini rimasero seduti in silenzio, ciascuno perduto nei suoi pensieri, ascoltando i passi del robot che si allontanavano nel corridoio, nella notte.
Il vecchio lanciò un’occhiata al bicchiere di whisky e tossì, per schiarirsi la voce.
«Adesso mi pento di non avere chiesto a Jenkins di portarne un bicchiere anche a me,» disse.
«Be’, non c’è niente di male,» disse Grant. «Prenda il mio bicchiere. Non ne ho realmente bisogno, sa.»
«Ne è sicuro?»
«Certo, Stia tranquillo.»
Il vecchio tese la mano, prese il bicchiere, lo assaggiò cautamente, fece un lungo sospiro di soddisfazione.
«Ah, finalmente… ecco quella che io chiamo una bevanda decente,» disse. «Il dottore ordina a Jenkins di servirmele sempre allungate.»
C’era qualcosa, nella casa, che entrava nel sangue e sotto la pelle, che dava i brividi e provocava disagio, senza che se ne capisse realmente il perché. Qualcosa che dava a un ospite la sensazione di essere un estraneo… forse un intruso… uno straniero pieno di disagio e nudo e indifeso nel quieto mormorio delle alte pareti.
Seduto sul bordo del letto, Grant si tolse lentamente le scarpe, e le lasciò cadere sul tappeto.
Un robot che aveva servito la famiglia per quattro generazioni, e che parlava di uomini morti da molto tempo come se avesse portato loro un bicchiere di whisky soltanto il giorno prima. Un vecchio in ansia per un’astronave che scivolava silenziosa attraverso le tenebre dello spazio, oltre i confini del sistema solare. Un altro uomo che accarezzava il sogno di un’altra razza, una razza che avrebbe potuto camminare accanto all’uomo, la zampa nella mano, sulla strada polverosa e interminabile del destino.