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«Chi è Oscar?»

«Oscar è il robot che si prende cura di noi.»

Grant sorrise al cane:

«Che cosa vuoi, Nathaniel?»

«Voglio parlare con te,» disse Nathaniel. «Tu hai parlato a tutti gli altri. A Bruce e al nonno. Ma non hai parlato con me, e io sono quello che ti ha trovato.»

«D’accordo,» lo invitò Grant. «Avanti, allora, parla.»

«Tu hai dei pensieri,» disse Nathaniel.

Grant corrugò la fronte.

«Hai ragione. Forse sì, forse sono davvero preoccupato. La razza umana ha sempre dei pensieri, ha sempre delle preoccupazioni. Ormai dovresti sapere questo, Nathaniel.»

«Ti preoccupi di Juwain. Proprio come il nonno.»

«Non mi preoccupo per lui, Nathaniel,» protestò Grant, correggendolo. «Mi faccio soltanto delle domande. Rifletto e mi chiedo tante cose, e poi spero. La speranza vive sempre, sai.»

«Ma perché parlate sempre di questo Juwain?» domandò Nathaniel. «E chi è, che cosa ha…»

«In realtà, non è nessuno,» dichiarò Grant. «Cioè, vedi, una volta è stato qualcuno, ma è morto molti anni fa. Oggi è soltanto un’idea. Un problema. Una sfida. Qualcosa che ti fa riflettere, qualcosa che ti fa pensare e ti fa porre delle domande.»

«Io so pensare,» disse Nathaniel, con orgoglio. «Io penso moltissimo, a volte. Ma non devo pensare come pensano gli esseri umani. Bruce mi dice che non devo. Lui dice che io devo pensare i pensieri di un cane e lasciare stare i pensieri degli uomini. Lui dice che i pensieri dei cani sono buoni quanto i pensieri degli uomini, e che forse sono anche migliori.»

Grant annuì, serio in volto.

«In queste parole c’è molto di vero, Nathaniel. Dopotutto, tu devi pensare diversamente dall’uomo. Tu devi…»

«Ci sono tante cose che i cani sanno e gli uomini non sanno,» disse Nathaniel, pavoneggiandosi. «Noi possiamo sentire delle cose e vedere delle cose che gli uomini non possono né sentire né vedere. A volte ci mettiamo a ululare di notte, e gli uomini ci mandano via, ci fanno tacere. Ma se gli uomini potessero vedere e sentire quello che noi vediamo e sentiamo, avrebbero tanta paura che non potrebbero più muoversi. Bruce dice che siamo… che siamo…»

«Medianici?» domandò Grant.

«Sì, proprio questo,» dichiarò Nathaniel. «Non riesco a ricordare tutte quelle parole.»

Grant prese il pigiama che aveva posato sul tavolo.

«Che ne dici di passare la notte con me, Nathaniel? Ti puoi sistemare ai piedi del letto.»

Nathaniel lo guardò a occhi spalancati, occhi grandi e rotondi e umidi.

«Accidenti, vuoi dire che lo desideri sul serio?»

«Ma certo che lo desidero. Se dobbiamo essere soci, cani e uomini, faremo meglio a partire alla pari, non trovi?»

«Vedrai che non sporcherò il letto,» disse Nathaniel. «Te lo assicuro, sinceramente. Oscar mi ha fatto il bagno stasera.»

Agitò un orecchio, in quel momento.

«Però,» aggiunse, «Credo che gli siano sfuggite una pulce o due.»

Grant guardò, perplesso, la pistola atomica. Era un oggetto maneggevole, serviva a una quantità di cose utili, poteva essere usata per una larga gamma di funzioni, da quella di accendisigaro a quella di arma mortale e infallibile. Costruita per durare più di mille anni, era garantita contro ogni guasto, o almeno così affermava la pubblicità. Non si guastava mai… solo che, adesso, non ne voleva sapere di funzionare.

La puntò contro il terreno e la scosse vigorosamente e la pistola continuò testarda a rifiutarsi di funzionare. La batté con cautela contro un sasso vicino, e non ottenne nessun risultato.

L’oscurità stava calando sulle colline che si rincorrevano sinuose e interminabili da un orizzonte all’altro. Lontano, in un punto imprecisato della valle attraversata dal fiume d’argento, un gufo lanciò il suo beffardo, irrazionale richiamo. Il richiamo del gufo parve irridere, nel silenzio, gli sforzi di Grant. Le prime stelle, piccole e dolci, sbocciarono come fiori lontani nel cielo, a oriente, dove l’oscurità si addensava nera e violetta, mentre a occidente il soffuso chiarore denso di sfumature verdognole che ricordava il passaggio del sole, il quale dopo una breve sosta sull’orlo del mondo era scivolato in basso, per rischiarare altre notti e altre colline, stava incupendo nei ricchi colori tenebrosi della notte vicina. Tra poco il cielo sarebbe stato colmo e scintillante di stelle, tra poco a oriente quelle prime fiammelle lontane avrebbero palpitato di splendore in un cielo color del velluto più scuro. Il crepuscolo stava consumando i suoi ultimi bagliori, la notte stava avanzando silenziosa e oscura.

Davanti al grosso macigno la catasta di ramoscelli secchi e di rami bruniti dal sole e dalle stagioni era già pronta, e, un poco più lontano, Grant aveva accumulato dell’altra legna, raccolta nell’ultima ora del tramonto, legna che avrebbe alimentato per tutta la notte le fiamme guizzanti e confortevoli del fuoco dell’accampamento. Ma se la pistola non funzionava, non ci sarebbe stato il fuoco a tenergli compagnia nella lunga notte. La legna sarebbe rimasta scura e affastellata, e l’unica luce sarebbe stata quella delle stelle.

Grant imprecò, sottovoce, pensando al freddo della notte che si sarebbe insinuato nelle sue ossa, durante il sonno, pensando alle razioni fredde e sgradevoli che avrebbe dovuto mangiare.

Picchiò di nuovo la pistola sulla roccia, questa volta con maggiore forza. E, ancora, senza risultato.

Si udì scricchiolare qualcosa, un ramoscello che si spezzava nelle tenebre che andavano colmando sempre più rapidamente ogni anfratto, e Grant si rialzò di scatto, sorpreso. Accanto al tronco oscuro di uno dei giganti del bosco che torreggiavano nell’ombra sempre più fitta della sera era in piedi una figura umana, alta e dinoccolata.

«Salve,» disse Grant.

«Qualcosa che non va, straniero?»

«La mia pistola…» rispose Grant, ma si interruppe subito. Non aveva senso far conoscere a quella figura indistinta, confusa tra gli alti tronchi del bosco, che lui era disarmato.

L’uomo si fece avanti, tendendo la mano.

«Non funziona, eh?»

Grant si sentì togliere di mano la pistola.

L’ospite inatteso si acquattò per terra, incrociando le gambe, facendo degli strani suoni con la bocca, uno strano chiocciare sommesso che non aveva senso alcuno. Grant cercò di vedere cosa stesse facendo lo sconosciuto, ma l’oscurità che scendeva silenziosa e sempre più fitta trasformava la mano dell’uomo in una macchia nera come l’inchiostro, confusa, che si muoveva veloce sul lucido metallo della pistola.

Si udì uno scatto, e uno stridere metallico sommesso. L’uomo aspirò profondamente l’aria e rise forte. Si udì di nuovo lo stridere metallico, e poi di nuovo lo scatto, e infine l’uomo si alzò, porgendogli la pistola.

«Tutto sistemato,» disse. «Forse funziona meglio di quanto non abbia mai funzionato prima.»

Un ramoscello scricchiolò di nuovo, si spezzò nel silenzio carico di oscurità della sera.

«Ehi, aspetti un momento!» gridò Grant, ma l’uomo se ne era già andato, un fantasma nero che si muoveva tra i fantasmi dei tronchi.

Un brivido che non era il brivido della notte salì sinuosamente dal terreno e risalì lentamente, come un serpente oscuro, il corpo di Grant, gelandogli il sangue, fermandogli per un istante il cuore. Un brivido gli fece battere i denti, come se fosse stato nudo su quelle alte colline nel cuore dell’inverno, un brivido che gli fece rizzare i capelli sulla nuca, un brivido che gli diede la pelle d’oca, un brivido di disagio che la sua volontà non poteva sopprimere.

Non c’era alcun suono, a eccezione dell’allegro chiacchierio dell’acqua che saltellava come un cucciolo felice nell’oscurità, muovendosi nel torrentello che scorreva appena più in basso del punto in cui aveva sistemato il suo accampamento.

Tremando, Grant si inginocchiò accanto alla catasta di ramoscelli, e premette il pulsante della pistola. Una sottile fiamma azzurrina sgorgò dall’arma e i ramoscelli presero fuoco, crepitando e unendo il loro richiamo alla risatella oscura del torrente e al mormorio cupo del vento che spirava tra gli alti tronchi del bosco.