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E adesso qualcuno aveva gettato un sasso nello stagno di quel destino antico, adesso qualcuno aveva cambiato la strada polverosa e vuota, l’aveva avviata in un’altra direzione, aveva rivelato alle formiche il segreto della ruota, e il segreto della lavorazione dei metalli… quanti altri vincoli culturali erano stati sciolti, in quel formicaio, quante altre barriere antiche erano state rimosse, in modo che le formiche potessero uscire, libere, sulla strada del progresso?

La pressione della fame, forse, l’assillo quotidiano del cibo, sarebbero state le barriere più cospicue da rimuovere, sulla strada di una nuova civiltà. Senza queste barriere, le formiche avrebbero potuto trovare la strada in discesa. Fornendole di cibo abbondante, esse si sarebbero liberate dalla necessità di dedicarsi soltanto a una continua ricerca di mezzi di sussistenza, e avrebbero avuto tempo, tempo per pensare e per progredire. Era stato così, in questo caso?

Un’altra razza sulla strada della grandezza, che si sviluppava entro la struttura sociale costruita in quei giorni ormai dimenticati da sempre, quando la creatura chiamata Uomo ancora non aveva sentito l’alito della grandezza.

Dove sarebbe arrivata questa razza, percorrendo questa strada? Come sarebbero state le formiche, tra un milione di anni? Le formiche e l’Uomo avrebbero saputo… avrebbero potuto trovare un denominatore comune, uno solo, per camminare insieme verso un destino di collaborazione e di comune lavoro? Gli uomini e le formiche avrebbero saputo incontrarsi, così come si stavano incontrando gli uomini e i cani?

Grant scosse il capo. Questa era solo una speranza, e una speranza che si scontrava con le leggi della probabilità e del senso comune. Perché nelle vene dei cani e degli uomini scorreva lo stesso sangue, ed erano tanti i legami antichii che univano le due razze; mentre l’Uomo e le formiche erano cose distinte, nettamente separate, forme di vita che non erano nate per comprendersi, all’inizio del tempo, e che non avrebbero saputo, forse, mai comprendersi. Non c’era alcuna base comune tra l’uomo e la formica, come invece c’era stata tra l’uomo e il cane quando, nei giorni del paleolitico, uniti, cane e uomo si erano riscaldati davanti al fuoco, e avevano vegliato insieme per proteggersi dagli occhi ostili che avevano vagato fuori, nel buio della notte.

Grant intuì, più che sentire, il fruscio dei passi sull’erba alta e soffice del prato che si stendeva alle sue spalle. Si alzò in piedi, bruscamente, e si girò, e allora vide l’uomo che gli stava davanti. Un uomo dinoccolato, con le spalle spioventi e le mani enormi, mani che terminavano, con uno strano contrasto, in dita sensibili, lunghe e bianche e affusolate e sottili.

«Tu sei Joe?» domandò Grant.

L’uomo annuì.

«E tu sei un uomo che mi ha dato la caccia.»

Grant spalancò la bocca, sorpreso.

«Be’, forse hai ragione. Non ho dato la caccia a te, personalmente, ma a uno come te.»

«Uno diverso,» disse Joe.

«Perché non sei rimasto, l’altra notte?» chiese Grant. «Perché te ne sei andato così in fretta? Volevo ringraziarti, per avermi riparato la pistola.»

Joe si limitò a fissarlo senza parlare, ma dietro le labbra mute dell’uomo Grant intuì la presenza di un divertimento grande e nascosto, un divertimento beffardo del quale non riusciva ad afferrare il motivo, e che pure esisteva, palpabile e reale come l’aria della valle sperduta.

«Come hai fatto a sapere che la pistola era rotta?» domandò Grant. «Mi avevi sorvegliato?»

«Ti ho sentito pensare.»

«Mi hai sentito pensare?»

«Sì,» disse Joe. «Anche adesso ti sento pensare.»

Grant rise, ma la risata uscì rauca, incrinata da un brivido di disagio. Era sconcertante, ma era anche logico. Era quello che avrebbe dovuto attendersi… quello, e molto di più.

Indicò il formicaio.

«Sono tue queste formiche?»

Joe annuì, e il divertimento parve riaffiorare come una silenziosa cascata di bollicine, una cascata che giungeva fino alle labbra e le faceva lievemente tremare, e che si fermava là.

«Che cos’hai da ridere?» esclamò seccamente Grant.

«Io non sto ridendo,» gli disse Joe, e per qualche oscuro motivo Grant si sentì ferito, ferito e piccolo, come un bambino che ha ricevuto uno schiaffo per una mancanza che non avrebbe dovuto commettere, e che invece aveva commesso.

«Tu dovresti pubblicare gli appunti presi durante i tuoi studi,» disse Grant. «Potrebbero essere confrontati con il lavoro che sta svolgendo Webster.»

Joe si strinse nelle spalle.

«Io non ho appunti,» disse.

«Non hai appunti?»

L’uomo magro e dinoccolato si avvicinò al formicaio, e abbassò lo sguardo, fissando l’affaccendarsi ansioso delle minuscole creature.

«Forse,» dichiarò, «Avrai immaginato perché l’ho fatto.»

Grant annuì, gravemente.

«Me lo sono chiesto, infatti. Molto probabilmente è stata la curiosità, una curiosità sperimentale che ti ha spinto a farlo. E forse sì è trattato di pietà per una forma di vita inferiore; hai sentito che non è sufficiente il vantaggio che l’uomo si è preso all’inizio della storia per giustificare il monopolio del progresso da parte della razza umana.»

Gli occhi di Joe scintillarono, nella luce del sole.

«Curiosità… forse. Non ci avevo pensato.»

Si curvò sul formicaio.

«Ti sei mai chiesto per quale motivo la formica è progredita fino a tal punto, e poi si è fermata, di colpo, è rimasta immobile sulla strada del progresso? Per quale motivo la formica ha creato un’organizzazione sociale quasi perfetta, e poi ha lasciato perdere, cristallizzandosi in una monotona ripetizione degli stessi gesti, delle stesse azioni, della stessa vita? Che cosa è stato, secondo te, l’elemento che l’ha fermata?»

«La pressione della fame, prima di tutto.» disse Grant.

«Questa, e l’ibernazione,» dichiarò l’uomo allampanato. «L’ibernazione, vedi, ha sempre cancellato la memoria da una stagione all’altra. I ricordi dell’autunno scomparivano, dopo il letargo invernale, e a ogni primavera la formica doveva ricominciare da capo, ripartire da zero. Le formiche non hanno mai potuto beneficiare degli errori passati, non hanno potuto attingere dalla riserva di conoscenza accumulata nelle stagioni e negli anni.»

«Così tu hai dato da mangiare alle formiche…»

«E ho riscaldato il formicaio,» disse Joe, «In modo che esse non dovessero cadere in letargo, ai primi rigori dell’inverno. In modo che esse non dovessero ricominciare da capo, all’inizio di ogni primavera.»

«Quei piccoli carri?»

«Ne ho costruiti un paio, e li ho lasciati davanti al formicaio. Ci sono voluti dieci anni, ma alla fine le formiche sono riuscite a capire a che cosa servivano.»

Grant indicò con un cenno i sottili sbuffi di fumo che uscivano incessantemente dai minuscoli comignoli.

«Quelli li hanno fatti da sole,» gli disse Joe.

«E cos’altro hanno fatto?»

Joe si strinse nelle spalle, con aria annoiata.

«E come faccio a saperlo?»

«Ma, amico, tu le hai studiate. Anche se non hai preso degli appunti, le hai studiate, le hai osservate…»

Joe scosse il capo.

«Sono quasi quindici anni che non le ho più degnate nemmeno di un’occhiata. Oggi sono venuto solo perché ti ho sentito arrivare. Queste formiche, vedi, non mi divertono più.»

Grant spalancò la bocca, e poi la richiuse, stringendo con forza le labbra. Tacque per molto tempo, e alla fine disse:

«Così è questa la risposta. È per questo che l’hai fatto. Per divertimento.»

Non c’era alcuna vergogna sul viso di Joe, nemmeno un pallido tentativo di difesa, ma solo un’espressione annoiata, che mostrava il desiderio di lasciare perdere le formiche, di cambiare argomento. Le labbra dell’uomo si mossero, e formarono delle parole: