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«Certo. Perché, altrimenti?»

«La mia pistola. Immagino che tu abbia trovato divertente anche quella.»

«Non la pistola,» disse Joe.

Non la pistola, disse una parte della mente di Grant. Naturalmente, non la pistola, stupido, ma tu, proprio tu. Eri tu quello che lo divertiva. E lo stai divertendo anche adesso, proprio in questo momento.

Riparare le macchine agricole del vecchio Dave Baxter, per poi andarsene senza dire una parola, senza dubbio era stato uno scherzo spassosissimo, per Joe. E probabilmente si era tenuto la pancia dal ridere, si era rotolato sull’erba dei boschi, in una silenziosa esplosione di irrefrenabile allegria che doveva essere durata per giorni e giorni quando, quella volta, nella tenuta dei Webster, aveva mostrato al vecchio Thomas Webster qual era l’errore che impediva il funzionamento del suo motore interstellare.

Come un tronfio saccente che si divertiva a fare scherzi a un cucciolo piccolo e stupido.

La voce di Joe spezzò il filo dei suoi pensieri, lo riportò alla realtà del momento.

«Tu sei un numeratore, vero? Perché non cominci a farmi le tue domande? Adesso che mi hai trovato non te ne puoi andare senza annotare tutto sui tuoi fogli. La mia età, soprattutto. Ho centosessantatré anni, e sono appena un adolescente. Vivrò per altri mille anni almeno.»

Sedette al suolo, appoggiò il petto sulle ginocchia ossute, e cominciò a dondolarsi lentamente, avanti e indietro, avanti e indietro.

«Per altri mille anni, e se avrò cura di me…»

«Ma questo non è tutto,» gli disse Grant, cercando di mantenere calma la sua voce. «C’è qualcosa di più. C’è qualcosa che tu devi fare per noi.»

«Per noi?»

«Per la società.» dissse Grant. «Per la razza umana.»

«Perché?»

Grant lo fissò, attonito, e per un attimo rimase senza parole.

«Vuoi dire che non te ne importa?» disse, alla fine.

Joe scosse il capo e in quel gesto non c’era alcuna bravata, non c’era alcuna sfida delle convenzioni. Si trattava della semplice, brutale affermazione di un dato di fatto.

«Denaro?» suggerì Grant.

Joe agitò la mano, comprendendo in un solo gesto le colline che li circondavano, la valle racchiusa tra le alture verdeggianti, con il fiume che scintillava scorrendo lento in fondo.

«Io ho questo,» disse. «Non ho bisogno di denaro.»

«Vuoi la fama, allora?»

Joe non sputò, nel sentire quella parola, ma la sua espressione era quella di un uomo che ha sputato.

«La gratitudine del genere umano?»

«Quella non dura,» disse Joe, e nelle sue parole c’era di nuovo la vecchia ironia, l’immenso divertimento che affiorava appena sulle sue labbra.

«Ascolta, Joe,» disse Grant e, benché tentasse in ogni modo di tenere fuori dalla sua voce il tono supplichevole, esso affiorò ugualmente incrinando il suono delle sue parole. «Ascolta, Joe,» Ed era una supplica, benché lui non volesse. «Quello che ti devo far fare è importante… importante per le generazioni che ancora devono nascere, importante per tutto il genere umano, una pietra miliare nel nostro destino…»

«E perché,» domandò Joe, «Io dovrei fare qualcosa per qualcuno che ancora deve nascere? Perché dovrei guardare più in là degli anni della mia vita? Quando sarò morto, sarò morto, e tutte le grida festanti e la gloria, tutte le bandiere e le trombe trionfali non saranno niente, non significheranno niente, per me. Non saprò neppure se ho vissuto una gran vita o una vita di grande miseria.»

«Ma la razza…» disse Grant.

Joe rise, una risata forte e piena.

«La conservazione e il progresso della razza. È a questo che tu miri. Ma perché dovremmo preoccuparcene, tu e io? Perché?»

Le piccole linee che segnavano gli angoli della sua bocca scomparvero, con la fine della risata, e l’espressione del suo viso si fece molto seria, comicamente seria, e Joe alzò un dito, un lunghissimo dito ironicamente ammonitore.

«La conservazione della razza è un mito… un mito del quale avete vissuto tutti quanti… una sordida creazione nata dal marciume della vostra struttura sociale. La razza finisce ogni giorno. Quando un uomo muore, la razza muore, per lui… per quello che lo riguarda, non esiste più alcuna razza, non esiste più niente.»

«A te non importa niente di niente, ecco cos’è,» disse Grant.

«È quello che ti stavo dicendo,» dichiarò Joe. «È quello che ti ho detto dall’inizio.»

Diede un’occhiata di sbieco allo zaino, che Grant aveva posato al suolo, e gli angoli delle labbra gli s’incurvarono nell’ombra di un sorriso.

«Forse,» suggerì, «Se la cosa mi interessasse…»

Grant si affrettò ad aprire lo zaino, con l’ansia del naufrago che si vede offrire un’ancora di salvezza, ed estrasse il suo voluminoso incartamento. Ma a questo punto i suoi movimenti si fecero più lenti. Sentì qualcosa, dentro di sé, che gli diceva di fermarsi, di non farlo, perché era tutto inutile, non era così che si era aspettato di vivere quel momento… Pervaso da quella strana, inesplicabile riluttanza, estrasse il sottile fascicolo, diede un rapido sguardo al titolo:

«Definizione Incompiuta della Nuova Filosofia…»

Tese il fascicolo all’uomo allampanato, rimase immobile, seduto sull’erba, a fissare Joe, mentre questi leggeva velocemente, e in quel momento, mentre il tempo pareva essersi cristallizzato intorno a lui, nel silenzio di quella valle racchiusa tra le colline, il suo cuore fu stretto dalla gelida morsa dell’insuccesso, la sua mente parve affondare nel vuoto senza fine, nella consapevolezza del fallimento completo, totale, terribile.

Nella casa dei Webster lui aveva pensato a una mente che non fosse stata vincolata da alcun canale di logica, a una mente che non fosse stata condizionata da quattromila anni di pensiero umano, a una mente che non fosse stata impantanata nella palude delle convenzioni, delle abitudini, delle nozioni troppo conosciute e ritenute assolute e valide, delle consuetudini e delle artificiosità che l’Uomo aveva creato intorno a sé per ritrovarle poi ineluttabilmente dentro di sé. Una mente così, si era detto, avrebbe potuto riuscire nell’intento.

E aveva trovato quella mente. Eppure non era abbastanza. Qualcosa mancava… qualcosa mancava, e si trattava di una cosa alla quale non avevano pensato né lui, né gli uomini che a Ginevra reggevano le sorti del mondo. E quella cosa era una parte della condizione umana che tutti, fino a quel momento, avevano accettato senza riflettere, avevano dato per scontata.

La pressione sociale era l’elemento che aveva tenuto unita la razza umana nel corso dei millenni… l’aveva tenuta unita e compatta come razza, proprio come la pressione della fame aveva reso le formiche schiave di un sistema sociale immutabile e incrollabile.

La necessità che ogni uomo aveva di essere approvato dagli altri esseri umani, il bisogno di seguire il culto della solidarietà, sotto un certo aspetto… un bisogno psicologico, e quasi fisico, di ottenere l’approvazione per i propri pensieri e per le proprie azioni. Una forza che aveva impedito agli uomini di sfuggire per la tangente di mille comportamenti diversi e asociali, una forza che aveva impedito la disgregazione dell’unità della specie umana in tutti i suoi miliardi di componenti singoli, una forza che aveva spinto gli uomini a cercare la sicurezza sociale e la solidarietà umana, e a lavorare insieme nella grande famiglia umana.

Molti uomini erano morti per ottenere l’approvazione dei loro simili, altri uomini si erano sacrificati per lo stesso motivo, altri ancora avevano vissuto una vita che odiavano e detestavano, sempre in nome di quella necessità che nessuno, mai, aveva messo in dubbio. Perché senza l’approvazione dei suoi simili un uomo era solo, un reietto, una paria, un animale che era stato scacciato dal gregge.