Se le prove non avevano successo, l’Uomo avrebbe continuato a essere incatenato e schiacciato dalla tremenda pressione, dalla forza di gravità inimmaginabile, dall’allucinante composizione dell’atmosfera gioviana, dalla strana e ostile struttura biochimica dell’intero pianeta. L’uomo avrebbe continuato a essere prigioniero delle cupole, incapace di porre piede tisicamente sulla superficie del pianeta, incapace di vederlo con i propri occhi, senza l’ausilio di macchine e strumenti imperfetti, costretto a riporre la propria fiducia nei goffi trattori di superficie e nei fallaci schermi televisivi, costretto a lavorare con strumenti ingombranti e meccanismi goffi o per mezzo di automi ancora più goffi e ingombranti e lenti degli strumenti.
Perché l’Uomo, senza protezione, e nella sua forma naturale, sarebbe stato schiacciato come un insetto dalla spaventosa pressione di quattro tonnellate per centimetro quadrato, una pressione al cui confronto quella esistente sul fondo degli abissi oceanici, sulla Terra, pareva il vuoto assoluto degli spazi siderali.
Neppure i metalli più forti che i terrestri erano riusciti a fabbricare potevano continuare a esistere nella loro forma originale in una simile pressione, in una simile pressione e sotto le piogge alcaline che spazzavano eternamente la superficie del pianeta, portate dai ciclopici venti di tempesta. Anche il metallo più forte, in quelle condizioni, si sbriciolava e si spezzava, come argilla, o si scioglieva in rivoletti e pozze ribollenti di sali d’ammoniaca. Solo aumentando artificialmente la durezza e la forza del metallo, aumentandone la tensione elettronica, era possibile renderlo adatto a sopportare il peso di migliaia e migliaia di chilometri di vortici gassosi soffocanti che componevano la selvaggia, ostile atmosfera del grande pianeta. E dopo avere fatto tutto questo, dopo avere sfruttato tutte le risorse della scienza, era necessario rivestire ogni cosa di uno strato spesso di quarzo, per proteggere gli oggetti dalla pioggia… l’ammoniaca allo stato liquido che cadeva amara e feroce, la pioggia più ostile che l’Uomo avesse mai conosciuto.
Fowler, seduto dietro la scrivania, ascoltava il pulsare dei motori che si trovavano nel compartimento più basso della cupola… i motori che funzionavano incessantemente, facendo vibrare e ronzare e pulsare la cupola in una musica che non conosceva silenzio. I motori dovevano funzionare, dovevano funzionare senza fermarsi neppure per un istante, perché se avessero cessato di ronzare anche solo per un momento la tensione elettronica sarebbe diminuita, e quella sarebbe stata la fine, la fine totale e senza speranza.
Towser si mosse, sotto la scrivania di Fowler, e schiacciò un’altra pulce, e la sua zampa batté rumorosamente sul pavimento.
«C’è altro?» domandò Allen.
Fowler scosse il capo.
«Forse lei desidera fare qualcosa,» disse. «Forse lei…»
Stava per dire, «Forse lei desidera scrivere una lettera,» e fu felice di essersi fermato in tempo, prima di pronunciare quelle parole.
Allen diede un’occhiata all’orologio.
«Arriverò in tempo,» disse. Si voltò e camminò verso la porta.
Fowler sapeva che la signorina Stanley lo stava guardando e non voleva voltarsi, non voleva affrontare il suo sguardo. Sfogliò distrattamente un fascicolo che si trovava sulla scrivania, davanti a lui.
«Per quanto tempo ha intenzione di continuare questa faccenda?» domandò la signorina Stanley, pronunciando ogni parola lentamente, con forza, e ogni parola fu come un colpo di frusta, scagliato per ferire, destinato a ferire.
Allora Fowler si voltò a guardare la donna. Le sue labbra erano strette in una linea diritta e sottile, i capelli ancora più tirati e lisci sulla fronte, e il suo viso aveva più che mai quella strana e angosciosa somiglianza con una maschera di morte.
Fowler cercò allora di parlare con voce fredda e sicura.
«Finché ci sarà almeno un motivo ragionevole per farlo,» disse. «Finché ci sarà anche una sola ragione di speranza.»
«Lei è deciso a continuare a condannarli a morte,» disse lei. «Lei è deciso a farli marciare fino a incontrare Giove nel suo vero aspetto. Lei continuerà a stare seduto qui, al sicuro, comodamente, e a mandarli fuori a morire.»
«Non c’è posto per i sentimentalismi, signorina Stanley,» disse Fowler, cercando di tenere fuori dalla sua voce una nota di collera. «Lei conosce bene quanto me per quale motivo facciamo tutto questo. Lei si rende perfettamente conto che l’Uomo, nella sua forma naturale, semplicemente non può adattarsi a Giove, non può sperare di affrontare ad armi pari il pianeta. L’unica soluzione è quella di trasformare gli uomini nel genere di creature che possono adattarsi alle condizioni di vita del pianeta. L’abbiamo già fatto sugli altri mondi.
«Se pochi uomini muoiono, ma alla fine avremo successo, il prezzo che avremo pagato sarà lieve. In tutte le epoche gli uomini hanno sprecato la loro vita morendo per cose stupide, per motivi stupidi, per ideali stupidi. Perché noi dovremmo esitare, allora, a sacrificare poche vite umane, di fronte a un obiettivo così grande com’è quello che ci sta davanti?»
La signorina Stanley era seduta rigida e diritta, a braccia conserte, e le luci del locale giocavano con i suoi capelli che cominciavano a ingrigire; e Fowler, guardandola, cercò di immaginare quali fossero i suoi sentimenti, quali fossero i suoi pensieri in quel momento. Non aveva paura di lei, nel senso stretto della parola, ma quando era con lei non si sentiva mai a proprio agio. Quegli occhi azzurri e penetranti vedevano troppo bene, le sue mani avevano un aspetto troppo abile e capace. Quella donna avrebbe dovuto essere una tranquilla, vecchia zia, seduta comodamente su una poltrona a dondolo, intenta a lavorare a maglia con le sue dita veloci e sicure. Ma non era così. La signorina Stanley era la migliore operatrice di convertitori di tutto il Sistema Solare, e non le piaceva la maniera nella quale lui, Fowler, conduceva le operazioni nella sua cupola.
«C’è qualcosa che non va, signor Fowler,» disse lei.
«Precisamente,» ammise Fowler. «È per questo che mando fuori il giovane Allen da solo. Lui potrà scoprire cosa sta succedendo.»
«E se fallisce?»
«Manderò un altro.»
Lentamente, lei si alzò dalla sedia, mosse qualche passo verso la porta, poi si fermò, bruscamente, davanti alla scrivania di Fowler.
«Un giorno o l’altro,» gli disse, «Lei diventerà un grand’uomo. Non si lascia mai sfuggire un’occasione. E questa è la sua occasione, la sua grande occasione. Lo ha saputo dal momento in cui questa cupola è stata prescelta per gli esperimenti. Se lei avrà successo, sarà promosso, non importa il numero degli uomini che moriranno per ottenere questo successo. Lei sarà promosso, malgrado tutti i cadaveri che potranno essere disseminati lungo la strada.»
«Signorina Stanley,» le disse, e la sua voce era secca. «Il giovane Allen uscirà tra poco. La prego di controllare che la sua macchina…»
«La mia macchina,» disse lei, in tono gelido, «Non ha nessuna colpa. Funziona in base alle coordinate stabilite dai biologi.»
Restò seduto, curvo sulla scrivania, ascoltando i passi della donna che si allontanavano lungo il corridoio.
Quello che lei aveva detto era vero, naturalmente. I biologi avevano predisposto le coordinate. Ma i biologi potevano sbagliarsi. Bastava una differenza sottile come un capello, una virgola sbagliata nei calcoli, e il convertitore avrebbe mandato fuori qualcosa che non era quello che avrebbe dovuto uscire, nelle intenzioni. Un mutante che avrebbe potuto cedere alla tensione, oppure impazzire, oppure venire colpito da qualche condizione particolare, da qualche ostacolo sconosciuto, dalle forze dell’imprevisto che agivano sempre, in una missione del genere.
Perché l’Uomo non sapeva molto di quello che avveniva fuori. Sapeva solo quello che gli dicevano gli strumenti; e i campioni di ciò che avveniva su Giove, campioni forniti da quegli strumenti e da molti meccanismi che avevano sondato Giove, non erano altro che campioni, dati indicativi ma senza un valore probante, perché Giove era grande, troppo grande, incredibilmente grande, e le cupole erano piccole, al suo confronto, e lontane, e poche.