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Ma lui avrebbe letto le parole nei suoi occhi.

Riprese in mano l’elenco. Bennett, Andrews, Olson. C’erano degli altri, ma non aveva senso continuare.

Kent Fowler capì che non avrebbe potuto farlo, che non avrebbe potuto guardarli negli occhi, che non avrebbe potuto mandare degli altri uomini a morire là fuori.

Si piegò sulla scrivania, allungò una mano e premette il pulsante dell’intercom.

«Sì, signor Fowler?»

«Mi passi la signorina Stanley, per favore.»

Aspettò di entrare in comunicazione con la signorina Stanley, e mentre aspettava sentì il rumore che producevaa Towser, intento a masticare il suo osso. I denti di Towser non erano più buoni come ai vecchi tempi; il cane faceva fatica.

«Parla Stanley,» disse la voce della signorina Stanley.

«Volevo soltanto avvertirla, signorina Stanley, di prepararsi a convertire altri due.»

«Non ha paura,» domandò la signorina Stanley, «Di esaurire troppo in fretta tutta la sua riserva? Mandando fuori un uomo per volta, le durerebbero di più, e lei avrebbe il doppio di soddisfazione.»

«Uno sarà un cane,» disse Fowler.

«Un cane!»

«Sì, Towser.»

Sentì la collera improvvisa e fredda che le raggelò la voce.

«Il suo cane, perfino! Dopo che le è stato fedele per tutti questi lunghi anni…»

«È questo il punto,» disse Fowler. «Towser soffrirebbe se non lo portassi con me.»

Non era il pianeta Giove che lui aveva conosciuto attraverso i teleschermi. Se l’era aspettato diverso, certo, aveva saputo fin dall’inizio che gli occhi elettronici della cupola non potevano dare una visione completa del grande, tempestoso pianeta, ma non se l’era aspettato così. Aveva creduto di sprofondare in un inferno di nubifragi di ammoniaca e di vapori fetidi e asfissianti, aveva creduto di venire assordato dal tuono tumultuoso dell’eterna bufera. Aveva immaginato di trovarsi tra vortici di enormi nubi gravide di tempesta e in un mare di nebbia ostile solcato incessantemente dal balenio accecante di fulmini mostruosi.

Ma non si era aspettato che la pioggia flagellante si trasformasse in quella nebbia umida e purpurea e lenta che si muoveva come una processione compatta d’ombre fuggevoli sopra una prateria che pareva un arcobaleno di tonalità rosse e cangianti. Non aveva neppure lontanamente sognato che le crudeli serpentine dei fulmini si trasformassero in guizzi e bagliori di pura estasi che sbocciavano senza pause in un cielo dipinto.

Fermandosi ad aspettare Towser, Fowler mosse i muscoli del suo corpo, sorpreso dalla forza sicura e agile che vi trovava. Non era un corpo cattivo, decise, e ripensò con uno strano senso di compatimento a quando aveva provato un senso di commiserazione per i Rimbalzanti, vedendoli per la prima volta attraverso il teleschermo.

Perché era stato difficile immaginare un organismo vivente basato sull’ammoniaca e sull’idrogeno invece che sull’acqua e sull’ossigeno, era stato ancora più difficile credere che una simile forma di vita potesse provare lo stesso brivido della vita che l’umanità conosceva. Era stato difficile concepire l’esistenza della vita là fuori, nel maelstrom sciropposo che era Giove, non sapendo allora, naturalmente, che attraverso degli occhi gioviani quel maelstrom sciropposo non era affatto ciò che sembrava.

Il vento accarezzò il suo corpo con dolcezza, e lui ricordò, stupito, che quel vento, secondo i canoni terrestri, era un ciclone ruggente, un uragano tempestoso, una furia scatenata di venti inarrestabili carichi di vapori venefici.

Profumi dolci e piacevoli arrivavano fino al suo corpo, s’insinuavano morbidi nel suo corpo. E non erano profumi, non erano odori, perché la sensazione era completamente dissimile dal senso dell’olfatto, come l’aveva conosciuto un tempo, quando era stato un uomo. Non erano profumi eppure lo erano. Pareva che il suo corpo assorbisse, si impregnasse dell’essenza della lavanda… l’essenza, la sensazione, che era molto di più di un profumo; e che pure non era lavanda, ma qualcosa di diverso. Si trattava di qualcosa che non aveva una definizione, per lo meno una definizione umana; e senza dubbio si trattava del primo anello di un’interminabile catena di enigmi di terminologia che lui avrebbe dovuto affrontare. Perché le parole che conosceva, i simboli di pensiero dei quali si era servito quando era stato un terrestre, non gli sarebbero più serviti, ora ch’era diventato un gioviano.

Lo sportello si aprì sul fianco della cupola, e Towser ne uscì pesantemente, rotolando e rimbalzando… almeno, lui pensò che dovesse trattarsi di Towser.

Fecee per chiamare il cane, e la sua mente cominciò a formare le parole che lui intendeva pronunciare. Ma non riuscì a pronunciarle. Non c’era alcun modo di pronunciarle. Non aveva alcun mezzo per pronunciarle. Niente, nel suo fisico, poteva servire a esprimere delle parole, o soltanto dei suoni.

Per un istante la sua mente ondeggiò in un vortice di viscido terrore, una paura cieca che si agitò in rivoletti di panico nel buio che era calato nella sua mente.

Come facevano a parlare, i gioviani? Come…

Improvvisamente sentì Towser, sentì acutamente, distintamente l’amicizia ansiosa e completa dell’animale stanco e magro e ossuto che l’aveva seguito dalla Terra su molti pianeti. Come se la creatura che era Towser si fosse protesa e per un attimo si fosse seduta all’interno della sua mente.

E insieme al confuso sentimento d’affetto, alla calda sensazione di benvenuto che sentì giungere da Towser, vennero le parole.

«Ciao, amico.»

Non erano in realtà delle parole, erano meglio delle parole. Simboli di pensiero che si formavano nella sua mente, e venivano comunicati direttamente, in simboli che possedevano delle sfumature di significato e di sentimenti che le parole non avrebbero mai potuto esprimere.

«Ciao, Towser,» rispose.

«Mi sento bene,» disse Towser. «Come quando ero un cucciolo. In questi ultimi tempi mi sentivo molto stanco e molto pesante. Le zampe erano sempre più deboli e i denti si consumavano e non servivano più a molto. Difficile masticare un osso, con denti così ridotti! E poi, le pulci non mi davano requie. Una volta non prestavo loro molta attenzione. Qualche pulce in più o in meno non significava poi tanto, quando ero più giovane.»

«Ma… ma…» I pensieri di Fowler parvero tremare per la sorpresa, parvero esitare a esprimere dei concetti definitivi. «Tu mi stai parlando!»

«Questo è sicuro,» disse Towser. «Io ti ho sempre parlato, ma tu non riuscivi a sentirmi. Io cercavo di dirti delle cose, ma non riuscivo a farmi capire.»

«A volte riuscivo a capirti,» disse Fowler.

«Non molto bene,» spiegò Towser. «Sapevi quando volevo da mangiare e quando volevo bere e quando volevo uscire, ma sei riuscito a capire soltanto quello, e niente di più.»

«Mi dispiace,» disse Fowler.

«Dimenticatene,» lo rassicurò Towser. «Vediamo chi arriva primo a quella roccia.»

Per la prima volta, Fowler vide la roccia, che distava apparentemente diversi chilometri; era una roccia che possedeva una strana bellezza cristallina, uno splendore che scintillava nell’ombra delle nuvole dai molti colori cangianti.

Fowler esitò.

«È lontana, molto lontana…»

«Ah, andiamo, muoviti,» disse Towser e, nello stesso tempo, si mise a balzare verso la rooccia.

Fowler lo seguì, mettendo alla prova le sue gambe, saggiando la forza di quel suo nuovo corpo, dapprima un po’ dubbioso, sorpreso un attimo dopo, e poi felice, felice di una gioia pura e completa che confondeva e univa in una sola cosa la forza del suo corpo che correva e la prateria rossa e purpurea e cangiante, i vapori e il fumo umido e danzante della pioggia sopra la landa senza limiti.