«Mi sentirò solo,» disse Towser, ma non furono parole e non furono suoni. Non parole… invece, un senso di solitudine, un pianto disperato per la separazione vicina. Come se, per un momento, Fowler si fosse proteso e avesse condiviso la mente di Towser.
Fowler rimase in silenzio, immobile, mentre la ripugnanza cresceva dentro di lui. Ripugnanza, al pensiero di tornare a essere un uomo… di tornare a vivere in quel misero involucro che era il corpo umano, di tornare a pensare in quello strumento inadeguato che era la mente umana.
«Verrei con te,» gli disse Towser, «Ma so che non riuscirei a sopportarlo. Potrei morire prima di tornare qui, prima di tornare a essere come sono ora. Ero alla fine dei miei giorni, e alla fine delle mie forze, ricordi? Ero vecchio e pieno di pulci. Avevo i denti logori che stavano per cadere, e la digestione era sempre una sofferenza infinita. E facevo dei sogni terribili. Quando ero cucciolo mi divertivo a dare la caccia ai conigli, ma verso la fine erano i conigli a dare la caccia a me.»
«Tu rimani qui,» disse Fowler. «Io tornerò indietro…»
Se riuscirò a convincerli, pensò. Se riuscirò a farli comprendere. Se riuscirò a spiegare quello che ho visto e quello che ho sentito e l’esperienza che ho vissuto.
Sollevò la testa massiccia e guardò la distesa ondulata delle colline che facevano corona agli alti picchi montani avvolti dal manto di nebbia rosa e purpurea. Un lampo veloce tracciò la sua linea serpentina, attraverso il cielo, e le nubi e la nebbia furono rischiarate da un palpito di fuoco sublime, un palpito d’estasi che sbocciò tutt’intorno e cambiò i colori sempre mutevoli di Giove, scemando poi in un fuoco d’artificio di indescrivibili meraviglie.
Spinse avanti il suo corpo pesante, lentamente, con riluttanza infinita. Un fiore di profumo sbocciò nel prato fertile del vento, scese fino a lui portato dalle ali della brezza, e il suo corpo sembrò suggere l’aroma dolcissimo… parve diventare per un istante il profumo, e sbocciare anch’esso nel vento, tra le colline di porpora e d’oro, sul grande prato dai colori mutevoli. Eppure quello che sentiva non era un profumo… anche se quella parola era la definizione più vicina al vero che lui possedesse, anche se quella parola bastava a esprimere, sia pure confusamente, quello che lui sentiva e quello che gli era sbocciato nel corpo, nel suo corpo che lo aveva colto dal prato fertile del vento. Negli anni futuri il genere umano avrebbe dovuto scoprire un nuovo vocabolario, avrebbe dovuto inventare nuovi termini per esprimere ciò che Giove offriva.
Com’era possibile, si chiese, spiegare la nebbia che avvolgeva la landa nei suoi vapori umidi e mutevoli, e com’era possibile spiegare il profumo ch’era pura delizia? Gli uomini avrebbero capito più facilmente delle altre cose, ne era sicuro. Il fatto che nessuno dovesse mangiare, che nessuno dovesse dormire, che nessuno dovesse più angustiarsi per l’infinita gamma di nevrosi depressive delle quali l’uomo era sempre vittima. Avrebbero compreso queste cose, perché erano cose spiegabili in termini semplici e chiari, cose che potevano essere spiegate nel linguaggio che già esisteva.
Ma le altre cose… gli elementi per spiegare i quali sarebbe stato necessario l’uso di un nuovo vocabolario… come avrebbe potuto spiegarle? Le emozioni che l’Uomo non aveva mai conosciuto. Le capacità fisiche e morali che l’Uomo non aveva mai sognato. La chiarezza cristallina della mente, e la comprensione piena… la capacità di sfruttare il proprio cervello fino all’ultima cellula. Le cose che si sapevano e che si potevano fare, mentre l’Uomo non avrebbe mai potuto farle perché il suo corpo era privo dei sensi che le rendevano possibili e comprensibili.
«Scriverò tutto,» si disse. «Avrò tempo, e potrò scrivere tutto.»
Ma la scrittura, capì con un brivido, era uno strumento misero e inadeguato.
L’occhio di una telecamera sporgeva dall’involucro cristallino della cupola, e con un balzo lui si avvicinò a esso. Rivoletti di nebbia condensata vi scorrevano sopra, e lui si alzò, ritto sulle zampe posteriori per guardare direttamente nell’occhio elettronico.
Lui non poteva vedere niente, ma gli uomini che si trovavano all’interno avrebbero potuto vederlo. Gli uomini che stavano sempre di guardia, che fissavano senza pause la brutale distesa di Giove, con i suoi uragani ruggenti e le piogge di ammoniaca, e la lunga, eterna processione gravida di morte delle nubi di metano mortale, la processione che sfilava a ogni istante portata dalle ali del ciclone. Perché gli uomini riuscivano a vedere Giove solo in questo modo.
Alzò una zampa anteriore e scrisse rapidamente sul pannello della telecamera offuscato dal vapore… scrisse a rovescio.
Dovevano sapere chi era lui, perché non ci fosse alcun errore. Dovevano sapere quali coordinate dovevano usare. Altrimenti avrebbero potuto riconvertirlo nel corpo sbagliato, usare la matrice sbagliata, e lui sarebbe ritornato a essere uomo nel corpo di un altro… del giovane Allen, forse, o di Smith, o di Pelletier. E questo avrebbe potuto essere fatale.
La pioggia d’ammoniaca continuò a cadere, battente e implacabile, e portò via le parole scritte sul vapore, e lui tornò a scriverle.
Loro avrebbero capito quel nome. Avrebbero capito che uno degli uomini che erano stati convertiti in Rimbalzanti era tornato indietro per fare il suo rapporto.
Si calò al suolo e si girò con un guizzo, fissando la porta che conduceva all’unità di conversione. La porta si mosse lentamente, aprendosi.
«Addio, Towser,» disse Fowler, con dolcezza.
Un grido di avvertimento si levò nel suo cervello: Non è ancora troppo tardi. Non sei ancora entrato. Puoi ancora cambiare idea. Puoi ancora voltarti e correre e fuggire, fuggire…
Andò avanti, ormai deciso, stringendo mentalmente i denti. Sentì il pavimento metallico sotto le sue zampe soffici, sentì che la porta si chiudeva dietro di lui. Raccolse un ultimo pensiero, un frammento di pensiero, e capì che veniva da Towser, e poi ci fu soltanto l’oscurità.
La camera di conversione si trovava proprio davanti a lui, e lui cominciò a salire per il piano inclinato, per raggiungerla.
Un uomo e un cane uscirono, un giorno, pensò, e adesso l’uomo ritorna.
La conferenza stampa era andata molto bene. C’erano state molte cose soddisfacenti da riferire ai rappresentanti della pubblica opinione.
Sì, aveva detto Tyler Webster ai giornalisti, i disordini su Venere erano stati sedati. Si era soltanto trattato di mettere le parti in causa intorno al tavolo delle trattative e di farle discutere, e tutto era stato sistemato. Gli esperimenti biologici che si svolgevano ai confini del Sistema, nei gelidi laboratori di Plutone, stavano progredendo in maniera del tutto soddisfacente. La spedizione per Alfa del Centauro sarebbe partita entro la data prevista, malgrado le voci diffuse in giro sugli inconvenienti occorsi, che esistevano soltanto nella fantasia. La commissione economica avrebbe presto emanato dei decreti sui prezzi di certi prodotti interplanetari, ponendo fine così alle disparità che ancora esistevano.
Niente di sensazionale. Niente di roboante, per le prime pagine e per i titoli di scatola. Niente che potesse cambiare l’ordine dei programmi dei mezzi d’informazione.
«E Jon Culver mi ricorda,» disse Webster, «Di fare presente ai signori rappresentanti della stampa che oggi ricorre il centoventicinquesimo anniversario dell’ultimo omicidio commesso nell’intero Sistema Solare. Centoventicinque anni senza una sola morte causata da un atto di violenza premeditato.»
Si appoggiò allo schienale della poltrona e sorrise ai giornalisti, mascherando con quel sorriso la cosa che temeva più di tutte, la domanda che sarebbe venuta, lo sapeva, che sarebbe venuta e alla quale avrebbe dovuto rispondere.