«Addio, Bill,» disse Mark.
«Addio,» disse Pa’.
Rimase in piedi a guardare l’amico che, zoppicando, girava l’angolo della casa, e sentì il gelido artiglio della solitudine che veniva a toccarlo con la sua presenza di ghiaccio. Una solitudine tremenda. La solitudine della vecchiaia… della vecchiaia e di un’epoca ormai trascorsa e superata. Coraggiosamente, Pa’ arrivò ad ammetterlo. Lui era superato, era fuori tempo. Apparteneva a un’altra epoca. Era sopravvissuto al suo tempo, aveva vissuto oltre gli anni che erano stati suoi.
Aveva gli occhi annebbiati, acquosi. Strano. Cercò a tentoni il bastone, che aveva posato sulla panchina, e lentamente, appoggiandosi a esso, camminò verso il cancello che si apriva sulla strada deserta e abbandonata, dietro la casa.
Gli anni erano trascorsi troppo velocemente. Gli anni che avevano portato l’elicottero di famiglia e l’aereo di famiglia, lasciando l’auto ad arrugginire in qualche rimessa dimenticata, lasciando le vecchie strade a marcire e sbriciolarsi, dimenticate nell’abbandono. Gli anni che avevano praticamente relegato nell’angolo delle cose dimenticate la coltivazione della terra, l’aratro e la semina, con la nascita e l’ascesa delle colture idroponiche. Gli anni che avevano visto scendere la terra a prezzi irrisori, con la scomparsa delle fattorie come unità economiche, gli anni che avevano spinto la gente di città a disperdersi nelle campagne dove ciascun uomo, a un prezzo inferiore a quello di un lotto di città, poteva possedere ampie e libere distese di acri e acri di terra. Gli anni che avevano rivoluzionato l’edilizia fino al punto in cui le famiglie dovevano limitarsi a lasciare le vecchie case per occupare quelle nuove, costruite in serie, disponibili a un prezzo che era la metà di quello d’anteguerra; case che potevano essere cambiate e modificate a un prezzo irrisorio, per adeguarsi alla necessità di nuovo spazio o semplicemente alle esigenze del capriccio di un momento.
Pa’ sbuffò. Case che potevano essere cambiate ogni anno, come una volta si cambiava la disposizione dei mobili. Che razza di vita era?
Arrancò faticosamente lungo il sentiero polveroso, tutto ciò che rimaneva di quella che pochi anni prima era stata la strada spaziosa e affollata di un quartiere residenziale. Una strada di fantasmi, pensò Pa’… di piccoli fantasmi furtivi che sussurravano nella notte. Fantasmi di bambini che giocavano, fantasmi di tricicli rovesciati e di trenini sparpagliati nella polvere. Fantasmi di brave donne di casa riunite a raccontarsi gli ultimi fatti del giorno. Fantasmi di saluti gridati da una casa all’altra. Fantasmi di caminetti accesi e di comignoli fumanti in una notte d’inverno.
Piccoli sbuffi di polvere sbocciavano intorno ai suoi piedi e salivano a imbiancare il risvolto dei pantaloni.
Sull’altro lato della strada c’era la casa del vecchio Adams. Adams ne era stato orgoglioso, ricordò Pa’. Facciata grigia di pietra e finestre di vetri colorati. Adesso la pietra era verde di muschio e le finestre dai vetri infranti parevano bocche spalancate in una espressione spettrale di disprezzo. Le erbacce avevano soffocato le aiuole del prato e avevano invaso la veranda. Un olmo spingeva i rami contro la finestra del solaio. Pa’ ricordava il giorno in cui Adams aveva piantato quell’olmo.
Per un momento si fermò immobile, al centro di quella strada invasa dalle erbacce, con i piedi nella polvere, le mani strette intorno all’impugnatura del bastone, gli occhi chiusi.
Attraverso la nebbia degli anni sentì giungere le grida liete dei bambini che giocavano, l’abbaiare festoso del botolo di Conrad in fondo alla strada. E c’era Adams, a torso nudo, con la vanga in mano, che scavava la buca mentre l’olmo, con le radici giovani avvolte in un sacco di tela, giaceva sul prato vicino.
Maggio 1946. Quarantaquattro anni prima. Subito dopo che lui e Adams erano tornati a casa insieme dalla guerra.
Si udirono dei passi attutiti nella polvere e Pa’, sorpreso, aprì gli occhi.
Davanti a lui c’era un giovane. Un ragazzo sui trent’anni, almeno a giudicare a prima vista. Forse ancora più giovane.
«Buongiorno,» disse Pa’.
«Spero di non averle fatto paura,» disse il giovane.
«Lei mi ha visto qui in piedi,» chiese Pa’, «Come uno stupido idiota, con gli occhi chiusi?»
Il giovane annuì.
«Stavo ricordando,» spiegò Pa’.
«Lei vive da queste parti?»
«Proprio in fondo alla strada. Sono l’ultimo rimasto in questa parte della città.»
«Allora, forse, mi può aiutare.»
«Provi a chiedere,» disse Pa’.
Il giovane cominciò, impacciato.
«Be’, vede, si tratta di questo. Io sto facendo un… be’, potrebbe chiamarlo una specie di pellegrinaggio sentimentale…»
«Capisco,» disse Pa’. «Proprio come me.»
«Mi chiamo Adams,» disse il giovane. «Mio nonno viveva qui vicino. Vorrei sapere…»
«Proprio quella casa, vede?» disse Pa’.
Uno accanto all’altro, fissarono la casa, in silenzio.
«Era una bella casa, un tempo,» gli disse Pa’. «Suo nonno piantò l’albero subito dopo essere tornato dalla guerra. Siamo stati insieme per tutta la guerra e siamo tornati a casa insieme. Gran giorno, quello…»
«È un peccato,» disse il giovane Adams. «Un peccato…»
Ma Pa’ parve non udirlo.
«Suo nonno, ha detto?» domandò. «Ci siamo persi di vista da tanto tempo. Non ne so più nulla.»
«È morto,» disse il giovane Adams. «Sono già diversi anni.»
«Si occupava di energia atomica,» disse Pa’.
«Proprio così,» rispose Adams, con orgoglio. «Se ne è occupato da quando l’energia atomica è diventata disponibile per l’industria. Subito dopo il trattato di Mosca.»
«Subito dopo che ebbero deciso,» fece Pa’, «Che non potevano combattere una guerra.»
«Proprio così,» fece Adams.
«È molto difficile fare una guerra,» disse Pa’, «Quando non c’è nulla che si possa prendere di mira.»
«Le città, vuol dire?» fece Adams.
«Già,» rispose Pa’, «Ed è davvero buffo. Hanno agitato la minaccia di un’infinità di bombe atomiche, e la gente non si è spaventata tanto da abbandonare le città. Ma non appena hanno fatto balenare la prospettiva di terra a buon mercato e di aereoplani di famiglia, la gente si è sparpagliata nelle campagne, come un branco di conigli.»
John J. Webster stava salendo l’ampia scalinata di pietra del municipio quando lo spaventapasseri ambulante che portava un fucile sotto il braccio lo raggiunse e lo fermò.
«Come sta, signor Webster?» chiese lo spaventapasseri.
Webster spalancò gli occhi, poi lo riconobbe e un sorriso gli rischiarò il viso.
«Ma tu sei Levi!» esclamò. «Come va la vita, Levi?»
Levi Lewis sorrise, scoprendo una chiostra di denti neri e spezzati.
«Non c’è male. Gli orti vengono su bene e i conigli hanno fatto una nuova covata. Saranno buoni da mangiare.»
«Tu non sarai immischiato nei disordini provocati dalle case, vero?» domandò Webster.
«No, signore,» dichiarò Levi. «Nessuno di noi Abusivi è immischiato nei disordini. Noi siamo gente timorata di Dio e rispettosa della legge, siamo. Il solo motivo per cui siamo qui è che non possiamo trovare il pane da nessun’altra parte. E se viviamo nei posti che gli altri hanno abbandonato, non facciamo male a nessuno. La polizia dà a noi la colpa dei furti e di tutte le altre cose che succedono, solo perché sa che non possiamo difenderci. Noi siamo i capri espiatori, ecco cosa siamo.»
«Sono contento di sentirtelo dire,» fece Webster. «Il capo vuole bruciare le case.»
«Se ci prova,» dichiarò Levi, «Sbatterà contro qualcosa che non si immagina nemmeno. Ci hanno sbattuti fuori dalle nostre fattorie, con quella loro dannata coltivazione in vasca, ma adesso non ci sbatteranno fuori da dove siamo.»
Sputò sui gradini della grande scalinata. «Non avrebbe per caso qualche spicciolo che le cresce?» domandò. «Ho finito le munizioni e con quei conigli che crescono…»