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«È servito molto, agli uomini, tutto il loro sognare,» disse Ombra, stizzosamente.

E questa è la solenne verità, pensò Ebenezer. Non sono rimasti molti uomini, ormai. Ci sono soltanto i mutanti, chiusi nelle loro torri cupe, intenti alle loro occupazioni che nessuno conosce, che nessuno può immaginare… e c’è la piccola colonia di veri uomini che sopravvive ancora a Ginevra. Gli altri, tanto tempo fa, sono andati su Giove. Sono andati su Giove per trasformarsi in creature che non erano umane.

Lentamente, con la coda bassa e ciondolante, Ebenezer si girò, e cominciò a salire per il sentiero.

Che peccato per il coniglio, pensò. Era stato un coniglio così grazioso. Aveva corso così bene. E non aveva mai avuto paura, in realtà. Gli aveva dato la caccia tante e tante volte, e il coniglio sapeva che lui non l’avrebbe mai preso.

Malgrado ciò, Ebenezer non riusciva a biasimare il lupo. Per un lupo un coniglio non era soltanto un passatempo, un diversivo, una preda cui dare la caccia così, per gioco. Perché il lupo non aveva greggi che gli dessero la carne e il latte di cui aveva bisogno, non aveva campi dorati di grano da mietere per preparare biscotti.

«Sai cosa dovrei fare?» grugnì l’implacabile Ombra, che lo seguiva dappresso. «Dovrei dire a Jenkins che sei venuto qui. Lo sai che dovresti ascoltare, in questo momento.»

Ebenezer non rispose, e continuò a trotterellare per il sentiero. Perché quello che aveva detto Ombra era vero. Invece che dare la caccia ai conigli, lui avrebbe dovuto starsene accucciato nella Casa dei Webster, avrebbe dovuto starsene accucciato ad ascoltare… ad ascoltare le cose che giungevano fino a lui… ì rumori e gli odori e la consapevolezza di qualcosa che era vicino. Era come ascoltare tenendo l’orecchio appoggiato a una parete ciò che accadeva nella stanza vicina, solo che i suoni erano deboli, e i profumi e gli odori fievoli, e a volte molto lontani e difficili da afferrare. Ed era ancora più difficile comprenderli, a volte.

È l’animale che vive dentro di me, pensò Ebenezer. Il vecchio cane, pieno di pulci, quello che masticava un osso succulento e scavava tra le aiuole del giardino, il vecchio cane che non vuole andarsene, che non mi vuole lasciare… che mi spinge a fuggire nel bosco per andare a caccia di conigli, mentre invece dovrei essere in casa ad ascoltare, che mi spinge a respirare l’aria verde della foresta, a esplorare la profondità dei boschi e dei sentieri tra il verde, mentre invece dovrei essere in casa, a leggere i vecchi libri che riempiono gli scaffali della biblioteca dello studio.

Troppo in fretta, si disse. Siamo cresciuti troppo in fretta. Abbiamo dovuto crescere troppo in fretta, ed è stato superiore alle nostre forze.

L’uomo ha impiegato migliaia di anni per trasformare i suoi grugniti rauchi in parole, in un discorso intelligibile, nei primi rudimenti di una lingua, e poi ci sono volute altre migliaia di anni per scoprire il fuoco, e ancora molte altre migliaia di anni per inventare l’arco e la freccia… migliaia di anni per imparare ad arare la terra e a mietere il raccolto per avere del cibo, migliaia e migliaia d’anni ancora per abbandonare la caverna oscura e vivere in una casa costruita con le proprie mani.

E noi? Noi, dopo poco più di mille anni dal giorno in cui abbiamo imparato a parlare, ci siamo ritrovati da soli… da soli, in balia di noi stessi… non proprio, però, perché noi abbiamo avuto Jenkins.

La grande cattedrale della foresta si dissolse, intorno a lui, gli alberi e i cespugli si fecero più radi, apparve un grande prato sul quale si ergevano qua e là grandi querce nodose che si inerpicavano sul fianco della collina, simili a grandi vecchi zoppicanti che si fossero fermati ai bordi del sentiero, incapaci di riprendere l’ascesa, incapaci di ritrovare la strada, fermi là, immobili, stanchi e silenziosi.

La casa sorgeva sulla cima della collina, una forma massiccia e austera che pareva aver messo radici nella terra, che pareva acquattarsi più vicina alla terra per sentirne la calda, umida presenza vitale. Era così antica che aveva acquistato il colore delle cose che la circondavano, dell’erba e dei fiori e degli alberi, del cielo e del vento e delle stagioni. Una casa costruita da uomini che l’avevano amata, avevano amato lei e la terra che la circondava, così come i cani, ora, amavano quella casa e quella terra amica. Costruita, abitata e abbandonata morendo da una famiglia leggendaria che era passata, producendo la scia di una stella cadente, attraverso lunghi secoli della lunga strada del tempo. Da uomini che avevano donato le loro ombre alle storie che si narravano intorno al focolare ardente nelle notti di bufera, quando il vento ululava tempestoso tra le foglie delle querce lontane. Quelle storie parlavano di Bruce Webster e del suo primo cane, Nathaniel; di un uomo di nome Grant che aveva dato a Nathaniel un messaggio, una torcia che brillava nel tempo e che doveva essere passata di cane in cane, nelle generazioni future; di un altro uomo che aveva cercato di raggiungere le stelle e del vecchio che lo aveva aspettato invano, seduto sullo sdraio nel prato verde. E altre storie parlavano dei mutanti, gli orchi crudeli che i cani avevano sorvegliato per lunghi anni.

E adesso gli uomini se ne erano andati e la famiglia era solo un nome e i cani portavano avanti la torcia come Grant aveva detto a Nathaniel, in quel giorno lontano, di continuare a fare per sempre.

Come se voi foste gli uomini, come se i cani fossero gli uomini. Erano queste le parole la cui eco si era spenta da dieci lunghi secoli, erano queste le parole che i cani avevano detto ai cuccioli e i cuccioli avevano trasmesso in tono grave ai loro cuccioli… e alla fine il tempo era venuto.

I cani erano tornati a casa quando gli uomini se ne erano andati, erano venuti dai più lontani angoli della Terra, erano ritornati al luogo dove il primo cane aveva pronunciato la prima parola, dove il primo cane aveva letto la prima riga di scrittura… erano tornati alla Casa dei Webster, dove un uomo, il cui ricordo si confondeva nelle nebbie del passato e della leggenda, aveva sognato un grande sogno nel quale il cane e l’uomo percorrevano insieme il lungo sentiero dei secoli, mano nella zampa.

«Abbiamo fatto del nostro meglio.» disse Ebenezer, come se stesse parlando a qualcuno. «Abbiamo tentato con tutte le nostre forze. Anche adesso lo stiamo facendo.»

Dall’altro fianco del colle venne lo scampanio cristallino dai campanacci, insieme a un coro di guaiti allegri, insieme a un abbaiare frenetico e ansioso. I cuccioli riportavano le vacche dal pascolo, per la mungitura della sera.

La polvere dei secoli giaceva immobile sotto la volta, innumerevoli briciole di polvere, una polvere finissima che non era una cosa estranea, ma faceva parte del luogo stesso… era la parte che era morta con il passare degli anni.

Jon Webster respirò l’odore acre della polvere che dominava la stanza, insieme all’odore di muschio e di cose ingiallite e di cose andate per sempre, Jon Webster ascoltò il silenzio pulsare come una canzone muta dentro di lui. Una fioca lampada al radium ardeva sul pannello, il pannello con la sua ruota e l’interruttore e mezza dozzina di quadranti.

Timoroso di turbare il silenzio che aveva il profumo del sonno e della pace, Webster si mosse quasi in punta di piedi, rispettoso del peso del tempo che pareva scendere su di lui dalla volta. Allungò una mano e col dito toccò l’interruttore scoperto, quasi che avesse pensato di non trovarlo, in realtà, quasi che avesse dovuto sentire il suo contatto sul dito per accettarne la presenza.

E non era illusione, era là, vero e solido. L’interruttore e la ruota e i quadranti, e la luce solitaria che ardeva dolcemente sopra il pannello. E non c’era altro, solo quello. In tutta quella cripta piccola e spoglia, sotto la volta polverosa del tempo, non c’era altro.