Sicurezza. Sicurezza nel modo in cui la casa si ergeva solida e massiccia. Tenacia, nel modo in cui la casa faceva parte della terra stessa. Rigidità, testardaggine e una certa malinconia.
Sara era rimasta seduta per giorni e giorni davanti al televisore, sintonizzato sulla casa, e aveva tracciato i suoi schizzi, li aveva rifatti, aveva cominciato a dipingere lentamente, e spesso era rimasta seduta a guardare, con gli occhi socchiusi, immobile, senza far nulla. C’erano stati dei cani, gli aveva detto, e dei robot, ma non li aveva messi nel quadro, perché voleva soltanto la casa. Una delle poche case rimaste in piedi nell’aperta campagna. Neglette da secoli innumerevoli, le altre case erano crollate, avevano restituito la terra agli alberi e agli sterpi e alla natura selvaggia.
Ma c’erano dei cani e dei robot in quella casa. Un robot grande, aveva detto Sara, e una legione di piccoli robot.
Webster non le aveva prestato attenzione… era stato troppo occupato.
Si voltò, ritornò lentamente alla scrivania.
Che strano, a pensarci. Robot e cani che vivevano insieme. Un Webster, un tempo, si era occupato dei cani, aveva cercato di metterli sulla strada di una civiltà propria, aveva cercato di creare una civiltà fatta di due razze sorelle, quella dell’Uomo e quella del Cane.
Vaghi frammenti di ricordi gli affollarono la mente… frammenti esili, immagini e parole fuggevoli, delle leggende che erano state tramandate negli anni sulla Casa dei Webster. C’era stato un robot chiamato Jenkins che aveva servito la famiglia fin dai primi giorni. C’era stato un vecchio seduto su una poltrona a rotelle, sul prato che si stendeva davanti alla casa, un vecchio che aveva guardato le stelle e aveva atteso un figlio che non era mai ritornato. E una maledizione era stata sospesa sulla casa, la maledizione di aver fatto perdere al mondo la filosofia di Juwain.
Il visifono era in un angolo della stanza, un mobile che faceva parte dell’arredamento e che era stato quasi dimenticato, un oggetto che non era stato quasi mai usato. Non c’era mai stato bisogno di usarlo, infatti. Tutto il mondo era là, nella città di Ginevra.
Webster si alzò, fece qualche passo in direzione del visifono, poi si fermò e cercò di ricordare. La combinazione di chiamata doveva essere sull’elenco, ma dov’era l’elenco? Probabilmente, era nascosto da qualche parte, nella scrivania.
Ritornò alla scrivania, e cominciò a frugare nei cassetti. Preso da un’ansia improvvisa, cercò in fretta, ansiosamente, come un cane che cerchi di disseppellire un osso.
Jenkins, il robot antico, si grattò il mento metallico con dita metalliche. Era una cosa che faceva quand’era profondamente immerso nei suoi pensieri, un gesto senza significato e irritante che aveva preso a fare nella sua lunghissima associazione con gli esseri umani.
I suoi occhi tornarono a posarsi sul piccolo cane nero che stava seduto sul pavimento, davanti a lui.
«Così il lupo è stato amichevole,» disse Jenkins. «Ti ha offerto il coniglio.»
Ebenezer saltellò di eccitazione, seduto com’era.
«Era uno di quelli che abbiamo sfamato durante l’inverno passato, il branco che è arrivato fino alla casa e che noi abbiamo cercato di addomesticare.»
«Riconosceresti il lupo, se lo rivedessi?»
Ebenezer annuì.
«Ho fiutato il suo odore,» disse. «Lo ricorderei sempre.»
Ombra strusciò i piedi sul pavimento, impaziente.
«Senti, Jenkins, non credi che dovresti dargli una lezioncina? Avrebbe dovuto ascoltare ed è scappato. Nessuno gli aveva permesso di andare a caccia di conigli…»
Jenkins parlò con voce ferma.
«Sei tu che dovresti avere la lezione, Ombra. Per il tuo atteggiamento. Tu sei assegnato a Ebenezer, dovresti essere parte di lui. Tu non sei un individuo singolo. Tu sei soltanto le mani di Ebenezer. Se lui avesse le mani, non avrebbe bisogno di te. Tu non sei né il suo mentore né la sua coscienza. Solo le sue mani. Ricordatelo sempre.»
Ombra strusciò i piedi più forte, recalcitrante.
«Scapperò via,» dichiarò.
«Per unirti ai robot selvaggi, suppongo,» disse Jenkins.
Ombra annuì.
«Saranno felici di avermi con loro. Stanno lavorando, stanno costruendo, e hanno bisogno di tutto l’aiuto che possono ottenere.»
«Ti farebbero a pezzi per utilizzare i rottami,» gli disse Jenkins, acidamente. «Tu non hai nessun addestramento, nessuna capacità, niente che ti possa far diventare uno di loro.»
Si rivolse a Ebenezer.
«Abbiamo degli altri robot.»
Ebenezer scosse il capo.
«Ombra va benissimo. So come trattarlo. Ci conosciamo bene, ormai. Lui mi impedisce di impigrire, mi tiene sempre attivo e dinamico.»
«Questo va bene,» approvò Jenkins. «Voi due continuerete a stare insieme, allora. E se per caso ti capita di tornare a dar la caccia ai conigli, Ebenezer, e ti imbatti di nuovo nel lupo, cerca di educarlo.»
I raggi del sole al tramonto si riversavano dalle finestre, bagnando di luce l’antica stanza, immergendola nel dolce calore di una sera di primavera inoltrata.
Jenkins restò seduto in silenzio sulla poltrona, ascoltando i suoni che giungevano da fuori… lo scampanio tintinnante delle vacche, i guaiti lieti dei cuccioli, il ritmico tonfo sonoro di un’accetta che spaccava i ceppi per il focolare.
Povero piccolo, pensò Jenkins. Scappare così di casa per dare la caccia a un coniglio, quando avrebbe dovuto ascoltare. Troppo lontano… troppo avanti… e troppo in fretta. Devo stare attento. È pericoloso. Devo impedire che il troppo lavoro li faccia crollare. Lasciamo che venga l’autunno, e poi interromperemo il lavoro per una settimana o due. Vacanza per tutti, e caccia al procione per tutto il giorno. Farà loro un mondo di bene.
Eppure verrà un giorno in cui non ci sarà più la caccia, né al procione né ai conigli… il giorno in cui i cani, finalmente, avranno addomesticato tutte le creature… il giorno in cui tutte le creature selvagge diventeranno esseri capaci di pensare, di parlare e di lavorare. Un sogno pazzo e audace e lontano… ma, pensò Jenkins, non è più pazzo e più remoto e più audace di molti sogni degli uomini.
Forse, perfino migliore dei sogni degli uomini, perché in esso non c’era traccia della brutalità spietata dei piani degli uomini, perché in esso non c’era traccia dell’aridità meccanica che costituiva il fine ultimo di certi sogni umani.
Una nuova civiltà, una nuova cultura, un nuovo modo di pensare. Forse mistico, e forse visionario, ma anche l’uomo era stato un visionario. Loro indagavano nei misteri che l’Uomo aveva scartato, sprezzante, pensando che fossero indegni della sua civiltà, superati e perduti nelle nebbie lontane della superstizione, privi di qualsiasi attendibilità scientifica.
E quei misteri che l’Uomo aveva confinato entro i limiti sfumati della leggenda e del mito, quei misteri erano le cose che ora i Cani cercavano.
Cose che si scontrano cupamente nella notte. Forme indistinte. Cose che si aggirano di notte intorno alla casa, e i cani si svegliano e ringhiano spauriti e guaiscono col pelo ritto, e fuori non ci sono orme sulla neve. Cani che ululano quando qualcuno muore.
I cani sapevano. I cani avevano saputo già molto tempo prima di ricevere una lingua per parlare, e delle lenti di contatto per leggere. Non avevano percorso la lunga strada fino al punto in cui l’uomo l’aveva percorsa… non erano cinici e scettici. Credevano nelle cose che vedevano e che udivano. Non avevano inventato la superstizione come una forma di protezione, come uno scudo per proteggersi dalle cose invisibili.