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«Mi piace stare qui,» disse Ebenezer, e voleva dire che gli piaceva restare in grembo a Webster, ma l’uomo fraintese il senso delle sue parole.

«È naturale che ti piaccia,» disse. «Questa casa è tua quanto è mia. Forse è più tua, perché tu sei rimasto qui e ne hai avuto cura, mentre io l’ho dimenticata.»

Accarezzò il capo di Ebenezer e gli tirò gentilmente l’orecchio.

«Come ti chiami?» chiese.

«Ebenezer.»

«E cosa fai, Ebenezer?»

«Ascolto.»

«Ascolti?»

«Certo, è il mio lavoro. Ascolto le ombre.»

«E riesci a sentire le ombre?»

«Qualche volta. Non sono troppo bravo, però. Penso sempre a dare la caccia ai conigli, e non faccio attenzione alle ombre.»

«E che suoni fanno le ombre?»

«Fanno tanti suoni, suoni diversi. A volte camminano e a volte si scontrano e a volte fanno dei colpi strani. E a volte parlano. Benché il più delle volte pensino soltanto.»

«Ascoltami, Ebenezer; non mi sembra di riuscire a ricordare dove si possono trovare queste ombre.»

«Non sono in nessun luogo,» disse Ebenezer. «Per lo meno, non su questa terra.»

«Non capisco.»

«È come se ci fosse una grande casa,» spiegò Ebenezer. «Una casa molto grande, piena di tante stanze. E tra le stanze ci fossero delle porte. E tu, stando in una di queste stanze, riuscissi a sentire quelli che si trovano nelle altre stanze, ma non potessi andare da loro.»

«È impossibile,» disse Webster. «Certo che potrei andare da loro. Basterebbe passare dalla porta.»

«Ma tu non puoi aprire la porta,» disse Ebenezer. «Tu non sai neppure che la porta esiste. Credi che la stanza nella quale ti trovi sia l’unica dell’intera casa. E anche se sapessi che la porta esiste, non potresti aprirla.»

«Tu parli delle dimensioni.»

Ebenezer corrugò la fronte, in uno sforzo di comprensione.

«Non conosco la parola che hai detto. Dimensioni. Io ti ho detto quello che Jenkins ci ha detto per spiegarci i mondi delle ombre. Lui ha aggiunto che non si trattava di una casa, in realtà, e che non si trattava neppure di stanze, e che le cose che ascoltavamo probabilmente erano diverse da noi.»

Webster annuì, senza parlare. Era così che ci si doveva comportare. Usare il metodo più semplice. Non avere fretta. Non confondere i cani con paroloni difficili. Lasciare che afferrassero per prima cosa il concetto, e poi, a suo tempo, usare una terminologia più esatta e scientifica. E molto probabilmente si sarebbe trattato di una terminologia nuova, fabbricata ad arte. C’era già una parola, in quel nuovo vocabolario… le ombre. Ombre, le cose che vivono dietro le pareti, le cose che si sentono e non si possono identificare… gli abitanti della stanza accanto.

Ombre.

Se non fai il bravo, le ombre verranno a prenderti per portarti via.

Questo sarebbe stato il metodo umano. Non puoi capire una cosa. Non la puoi vedere. Non la puoi esaminare. Non la puoi analizzare. Va bene, allora non c’è. Non esiste. È un fantasma, un folletto, un’ombra.

Le ombre verranno a prenderti per portarti via…

Così è più semplice, più comodo. Hai paura? Certo, ma quando spunta il giorno la dimentichi. Quando accendi la luce, la paura vola via. E non ti perseguita, non ti ossessiona. Pensaci bene, pensaci molto, fai uno sforzo di volontà, e la paura non c’è più. L’hai mandata via. Trasformala in uno spettro, in un fantasma, in un folletto, e potrai riderne… alla luce del giorno.

Una lingua calda e umida lambì il mento di Webster, ed Ebenezer fu percorso da un brivido di piacere.

«Mi piaci,» disse Ebenezer. «Jenkins non mi ha mai tenuto così. Nessuno mi ha mai tenuto così.»

«Jenkins è molto occupato,» disse Webster.

«Puoi dirlo,» ammise Ebenezer. «Scrive molte cose in un libro. Cose che noi cani sentiamo quando ascoltiamo le ombre, e cose che dovremmo fare più avanti.»

«Hai sentito parlare dei Wester?» domandò l’uomo.

«Certo. Sappiamo tutto di loro. Tu sei un Webster. Pensavamo che non ce ne fossero più.»

«Sì che ce ne sono,» disse Webster. «Qui c’è sempre stato un Webster. È rimasto con voi per tutto il tempo. Jenkins è un Webster.»

«Davvero? Lui non ce l’aveva mai detto.»

«Non ha voluto.»

Il fuoco stava morendo e le ombre si erano infittite nella stanza. Le esili fiammelle guizzanti che animavano ancora le braci rossigne traevano strane figure e strane danze di giganti confusi dalle pareti e dal soffitto.

E non solo quello. C’erano delle altre cose. Deboli fruscii, deboli mormorii, come se le stesse pareti parlassero tra loro. Una vecchia casa con lunghi ricordi e tante vite racchiuse nella sua struttura, una casa antica con troppi ricordi e una vita ancora palpitante nei ricordi, una vita che pervadeva ogni cosa. Duemila anni di vita, per l’antica casa, duemila anni di vite che erano passate tra quelle mura. Una casa costruita per durare nel tempo, ed era durata nel tempo. Una casa costruita per essere più che un semplice edificio, più che una semplice costruzione… per essere una vera casa, un nido e una patria a un tempo. Ed era ancora una casa… un luogo solido e sicuro che abbracciava coloro che vi entravano, che li teneva stretti e li riparava e dava loro calore, li cullava, quasi, li faceva diventare parte di sé.

Dei passi si udirono, nella mente di Webster… passi che venivano da tempi lontani, e ormai trascorsi per sempre, passi che erano stati attutiti dalla polvere dei secoli, e dei quali si era spenta l’ultima eco tanto, tanto tempo prima del suo. Il passo dei Webster. La marcia dei Webster, di coloro che erano venuti prima di lui, di coloro che Jenkins aveva servito dal giorno della loro nascita all’ora della loro morte.

La storia, pensò Webster. Ecco la storia. La storia è qui, che si agita tra gli arazzi e striscia silenziosa sul pavimento, siede negli angoli oscuri, mi guarda dalle pareti. Quella storia viva che un uomo può sentire nel sangue e nelle ossa e che può avvertire nella schiena… la pressione degli occhi morti da tanto tempo, degli occhi tornati silenziosamente dalla notte.

Un altro Webster, eh! Non sembra gran cosa. Insignificante. Senza alcun valore. Il buon sangue è diventato acqua, la razza si è consunta, non ha più forza né vigore. Com’è diverso da ciò che eravamo noi, ai nostri tempi. Dev’essere l’ultimo della dinastia. Dev’essere l’ultimo dei Webster.

Jon Webster si mosse, provò l’istintivo desiderio di ribellarsi.

«No, non sono l’ultimo dei Webster,» disse. «Ho un figlio.»

Be’, la differenza non è poi molta. Dice che ha un figlio. Ma non può essere gran cosa…

Webster fece per alzarsi dalla poltrona, ed Ebenezer, con un salto, lasciò il suo grembo.

«Questo non è vero,» esclamò Webster. «Mio figlio…»

E poi tornò a sedersi sulla poltrona.

Suo figlio che andava nei boschi con l’arco e la freccia, giocando un nuovo gioco, divertendosi un mondo.

Un passatempo, aveva detto Sara prima di salire la collina che conduceva a cento anni di sogni.

Un passatempo. Non un lavoro. Non un modo di vivere. Non una necessità.

Un passatempo.

Una cosa artificiale. Una cosa che non aveva principio e non aveva fine. Una cosa che un uomo poteva lasciar perdere in qualsiasi momento, senza che nessuno se ne accorgesse neppure.