Noi eravamo gli eredi, ci era stata lasciata l’eredità, eravamo a un punto migliore di quanto nessuna razza mai fosse stata, di quanto nessuna razza possa sperare di trovarsi in futuro. E così abbiamo razionalizzato, ancora una volta, e ci siamo dimenticati la gloria della razza, perché, pur essendo splendida e meravigliosa, era anche un’idea dolorosa, un ricordo amaro, un concetto umiliante.
«Jenkins,» disse Webster, in tono severo, «Abbiamo sprecato dieci interi secoli.»
«No, non sprecato, signore,» disse Jenkins. «Forse è stato solo un riposo. E adesso, forse, potrete uscire di nuovo. Ritornare da noi.»
«Ma voi ci volete?»
«I cani hanno bisogno di voi,» gli disse Jenkins. «E anche i robot hanno bisogno. Perché entrambi, cani e robot, non sono mai stati nulla di più che servitori dell’uomo. Sono perduti, senza di voi. I cani stanno costruendo una civiltà, ma questa civiltà sta nascendo lentamente, molto lentamente.»
«Forse si tratta di una civiltà migliore di quella che noi abbiamo saputo costruire,» disse Webster. «Forse potrà avere più successo. Perché la nostra civiltà non ha avuto successo, Jenkins. Noi siamo stati sconfitti.»
«Sì, forse sarà una civiltà più mite,» ammise Jenkins, «Ma non troppo pratica. Una civiltà basata sulla fratellanza animale… sulla comprensione psichica e forse, alla fine, sulla comunicazione e sui rapporti con i mondi paralleli. Una civiltà della mente e della comprensione reciproca, ma non troppo pratica, non troppo positiva. Senza una méta vera e propria, per lo meno una méta reale, con uno sviluppo meccanico molto limitato… solo un continuo frugare alla ricerca della verità, in una direzione che l’Uomo ha superato e lasciato perdere senza degnarla neppure di uno sguardo.»
«E tu credi che l’Uomo potrà essere utile?»
«L’uomo potrebbe assumere la funzione di guida,» disse Jenkins.
«La guida giusta? La guida necessaria?»
«È difficile rispondere.»
Webster giacque nell’oscurità, e sentì che le sue mani s’imperlavano improvvisamente di sudore, e cercò di asciugarle sulla coperta che riscaldava il suo corpo.
«Dimmi la verità,» disse, e le sue parole erano secche, la sua voce era amara ma pervasa da una ferrea determinazione. «L’uomo potrebbe assumere la funzione di guida, hai detto. Ma l’uomo potrebbe anche riprendere il comando, il comando pieno e assoluto, potrebbe ritornare a essere il padrone. Potrebbe scartare le cose che i cani stanno facendo, considerandole prive di valore pratico. Potrebbe radunare tutti i robot e usare le loro capacità meccaniche per riprendere il vecchio, vecchio schema. I cani e i robot si inginocchierebbero davanti all’uomo.»
«Certamente,» disse Jenkins. «Perché sono stati servitori, una volta. Ma l’uomo è saggio… l’uomo sa cosa è giusto.»
«Grazie, Jenkins,» disse Webster. «Grazie davvero.»
Guardò nelle tenebre e nelle tenebre era scritta la verità.
Le orme lasciate la prima volta erano ancora impresse nella polvere, e l’acre odore del silenzio e delle cose andate era forte nell’aria immota, l’odore che faceva pensare al muschio e alle cose ingiallite e ai tempi che non sarebbero più ritornati. La fioca lampada al radium ardeva sopra il pannello, e la ruota e l’interruttore e i quadranti stavano aspettando, stavano aspettando il giorno in cui ci sarebbe stato bisogno di loro.
Webster si arrestò sulla soglia, respirando l’umidità della pietra sotto la coltre amara della polvere.
Difesa, pensò, fissando l’interruttore. Difesa… ciò che serve a tenere qualcuno fuori, il mezzo per sigillare un luogo e proteggerlo da tutte le armi, reali o immaginarie, che un ipotetico nemico avrebbe potuto usare.
E senza dubbio la stessa difesa che avrebbe tenuto fuori un nemico avrebbe tenuto dentro coloro che si difendevano. Non necessariamente, certo, ma…
Attraversò la cripta polverosa e si fermò davanti all’interruttore e la sua mano si alzò e lo toccò, lo mosse lentamente e nello stesso istante Webster capì che avrebbe funzionato.
Allora la sua mano si mosse veloce, e l’interruttore scattò. Dal basso, dalle viscere profonde della città, venne un brontolio sordo e sommesso, quando le macchine entrarono in azione. Gli aghi dei quadranti tremarono e cominciarono a muoversi, a salire.
Webster toccò la ruota con dita esitanti, la spostò di qualche centimetro, e gli aghi tremolarono di nuovo e salirono lentamente. Allora, con mano veloce e sicura, Webster girò la ruota e gli aghi salirono fino a raggiungere l’estremità opposta dei quadranti.
Allora Webster si voltò di scatto, e uscì dalla cripta, chiudendo la porta dietro di sé, e salì veloce i gradini corrosi dal tempo.
E ora, se la difesa funziona ancora, pensò. Se la difesa funziona ancora… Salì ancora più in fretta gli antichi gradini e il sangue cominciò a pulsargli nelle tempie.
Se la difesa funzionava ancora… se avesse almeno funzionato ancora!
Ricordò il sordo ronzio delle macchine nelle viscere della città, il brontolio cupo che aveva udito quando aveva abbassato l’interruttore. Quel suono significava che il meccanismo difensivo… per lo meno in parte… funzionava ancora.
Ma, anche se funzionava, avrebbe funzionato come lui sperava? Se per caso la difesa avesse tenuto fuori il nemico, ma non avesse impedito ai difensori di uscire?
Ogni moneta aveva due facce.
Ogni spada aveva due lame.
Ma se quella difesa… se…
Quando raggiunse la strada, vide che il cielo era cambiato. Una grigia cappa metallica di nebbia aveva coperto il sole e la città era immersa nel crepuscolo plumbeo, che le luci automatiche delle strade alleviavano soltanto in parte. Una brezza debole e strana gli accarezzò la guancia.
Le grige ceneri raggrinzite degli appunti e della mappa antica avevano finito di sfarfallare nella cappa del focolare, e Webster con l’attizzatoio disperse questi ultimi frammenti, quasi con rabbia, con una strana, perversa voluttà di distruzione. L’attizzatoio si mosse e le ceneri grige si dispersero, e il ricordo di ciò che Webster aveva disseppellito dal passato si disperse, e non avrebbe mai più potuto essere ritrovato.
Scomparso, pensò. L’ultima traccia è scomparsa. Senza la mappa, senza la profonda conoscenza della città che lui aveva raggiunto in venti lunghi anni di studi lenti e faticosi, nessuno avrebbe mai più potuto trovare quella cripta nascosta, quella nicchia racchiusa tra le umide pietre antiche, dove l’interruttore e la ruota e i quadranti scintillavano sotto i fievoli raggi della lampada solitaria.
Nessuno avrebbe mai saputo con esattezza ciò che era accaduto. E anche se qualcuno l’avesse sospettato, non avrebbe mai potuto esserne sicuro. E anche se qualcuno avesse potuto esserne sicuro, non avrebbe potuto farci niente.
Mille anni prima non sarebbe certo stato così. Perché in quel tempo l’uomo, se gli fosse stato dato il minimo indizio, avrebbe saputo risolvere con il ragionamento e la ricerca qualsiasi problema.
Ma l’uomo era cambiato. Aveva perduto l’antica conoscenza e l’antico talento. La sua mente era diventata una cosa inerte, flaccida. Ora viveva alla giornata, senza una méta splendida da raggiungere, senza un sogno fiabesco da avverare. Eppure conservava tuttora gli antichi vizi… i vizi che erano diventati virtù, secondo il suo metro di giudizio, e che lo avevano portato in alto, sempre più in alto. L’uomo conservava l’incrollabile certezza di essere l’unica razza, l’unica forma di vita che contava… conservava l’egoismo presuntuoso che l’aveva portato ad autodefinirsi Signore di tutto il Creato.