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Fuori della casa, nella grande strada, si udirono dei passi veloci, piedi che correvano, e Webster voltò le spalle al caminetto, guardò i ciechi vetri colorati delle finestre alte e strette.

Li ho scossi, pensò. Adesso li ho scossi, li ho fatti correre. Sono eccitati. Si chiedono cosa stia succedendo. Per secoli e secoli non hanno messo piede fuori della città, non si sono neppure curati di sapere com’era il mondo, ma adesso che non possono più uscire… hanno la bava alla bocca per il desiderio di farlo.

Il suo sorriso si allargò.

Forse saranno tanto scossi che decideranno di fare qualcosa. I topi in trappola sono capaci di realizzare le cose più impensate… se prima non impazziscono.

E se riusciranno a trovare una strada, se riusciranno a uscire… bene, hanno il diritto di farlo. Se riusciranno a uscire, si saranno guadagnati il diritto di ricominciare da capo.

Attraversò la stanza, si fermò sulla soglia per un momento, voltandosi a guardare il quadro appeso sopra il caminetto. Timidamente, con fare maldestro, sollevò la mano in un saluto esitante, l’ultimo, malinconico addio. E poi si costrinse a uscire, a percorrere la strada e a salire la collina… il percorso che Sara aveva seguito pochi giorni prima.

I robot del Tempio furono gentili e premurosi e discreti. Camminavano silenziosamente e avevano un atteggiamento dignitoso e severo. Lo accompagnarono là dove Sara dormiva e gli mostrarono il posto vicino, che Sara aveva riservato per lui.

«Prima lei vorrà scegliere un sogno,» disse il portavoce dei robot. «Possiamo mostrarle diversi campioni. Possiamo mescolarli e raggiungere le sfumature di suo gradimento. Possiamo…»

«Grazie,» disse Webster. «Non voglio un sogno.»

Il robot annuì, comprensivo e discreto.

«Capisco, signore. Lei desidera soltanto aspettare, far passare il tempo.»

«Sì,» disse Webster. «Immagino che la definizione sia questa.»

«Per quanto tempo, all’incirca?»

«Per quanto tempo?»

«Sì. Per quanto tempo lei desidera aspettare, signore?»

«Oh, capisco,» disse Webster. «E se facessimo per sempre?»

«Per sempre!»

«Per sempre mi pare l’espressione più adatta,» disse Webster «Avrei potuto dire anche per l’eternità, ma non ci vedo tanta differenza. È inutile sottilizzare sull’uso di due parole che vogliono dire più o meno la stessa cosa.»

«Sì, signore,» disse il robot.

Era inutile sottilizzare. Sì, certo, era inutile. Perché lui non poteva correre il rischio di prendere un’altra decisione. Avrebbe potuto chiedere di dormire per mille anni, e poi, al suo risveglio, avrebbe potuto cedere alla compassione e scendere la scala antica, per spegnere le macchine.

E questo non doveva accadere. I cani dovevano avere la possibilità di tentare la loro sorte. Dovevano essere lasciati indisturbati a tentare di riuscire là dove la razza umana aveva fallito. E fino a quando ci fosse stata un elemento umano, i cani non avrebbero avuto quella possibilità. Perché l’uomo avrebbe preso il comando, sarebbe venuto a rovinare ogni cosa, avrebbe riso sdegnosamente delle ombre che parlavano dietro i muri, si sarebbe opposto all’idea di addomesticare e civilizzare tutti gli animali selvaggi della terra.

Un nuovo schema… un nuovo metodo di pensiero e di vita… un nuovo modo per affrontare gli antichi problemi sociali. E tutto questo non doveva essere inquinato dall’alito stantio del pensiero umano.

I cani si sarebbero seduti in circolo di sera, finito il lavoro della giornata, e avrebbero parlato dell’uomo. Avrebbero dipanato l’antica, antichissima storia e avrebbero narrato le antiche, antichissime leggende, e l’uomo sarebbe stato un dio.

Ed era meglio così.

Perché un dio non può far del male.

ANNOTAZIONI SUL SETTIMO RACCONTO

Diversi anni or sono un antico frammento letterario fu portato alla luce. Apparentemente, un tempo, esso aveva fatto parte di un grande corpo letterario, e sebbene ne sia stata ritrovata solo una piccola parte, le poche storie in essa contenute furono sufficienti a indicare che l’opera doveva essere stata una raccolta di favole sui diversi componenti della fratellanza animale. Le storie sono arcaiche e le idee e il metodo narrativo che esse ci mostrano oggi ci appaiono a dir poco bizzarri. Un certo numero di studiosi, i quali si sono dedicati all’analisi dei frammenti, concordano con Stecco sulla probabilissima origine non-canina dell’opera ritrovata.

Il titolo di questi frammenti era ’Esopo’. Anche il titolo di questo settimo racconto è ’Esopo’, e il titolo della storia ci è giunto intatto, insieme alla stessa storia, dalla più remota antichità.

Cosa può significare questo? È la domanda che gli studiosi si pongono ancora oggi. Stecco, e questo è più che prevedibile, è convinto che si tratti di un altro anello della sua teoria tendente a dimostrare che la leggenda della quale ci occupiamo è di origine umana. Quasi tutti gli altri studiosi non sono d’accordo, ma fino a questo momento non sono stati in grado di avanzare nessuna ipotesi alternativa.

Stecco sostiene, inoltre, che questo settimo racconto fornisce la prova secondo la quale, se non esiste oggi alcun modo di dimostrare storicamente l’effettiva esistenza dell’Uomo, il motivo è da ricercarsi nel fatto che questa presenza umana è stata deliberatamente dimenticata, il suo ricordo è stato eliminato affinché la civiltà canina potesse proseguire per la sua strada nella sua forma più pura e incontaminata.

In questo racconto i Cani hanno dimenticato l’Uomo. Nei pochi membri della razza umana che ancora esistono tra loro essi non riconoscono l’Uomo, ma chiamano queste bizzarre creature con l’antico nome di famiglia dei Webster. Ma la parola ’Webster’ si è trasformata da nome proprio in nome comune. I Cani chiamano gli uomini ’webster’, mentre Jenkins pensa ancora alla famiglia umana di quel nome con la W maiuscola.

«Che cosa vuol dire uomini?» domanda Lupo, e Orso, quando cerca di spiegarglielo, non riesce a trovare le parole.

Jenkins dice, in questa storia, che i Cani non dovranno mai sapere dell’esistenza dell’Uomo. Spiega per noi, nel corpo della storia, i passi che sono stati fatti per togliere completamente il ricordo dell’Uomo.

Gli antichi racconti del focolare non ci sono più, dice Jenkins. E in questo fatto Stecco vede una deliberata congiura per dimenticare l’esistenza dell’Uomo, forse per motivi non così altruistici come vorrebbe far credere Jenkins, ma soprattutto allo scopo di salvare la dignità canina. Le storie del focolare, quelle antiche storie narrate dopo il lavoro, di sera, intorno al fuoco scoppiettante, non ci sono più, afferma Jenkins, e non dovranno mai più ritornare. Ma, a quanto sembra, in realtà le storie non erano sparite del tutto. In qualche remoto angolo del mondo, intorno a qualche fuoco dimenticato di una notte dimenticata, le storie continuavano a venir narrate, e così oggi noi le possediamo ancora.

Ma anche se le storie esistevano ancora, l’Uomo non c’era più, o per lo meno non esisteva quasi più. I robot selvaggi esistevano ancora, ma perfino loro, se pure non erano completamente frutto dell’immaginazione dell’epoca, oggi non ci sono più. I Mutanti se ne erano andati, e poiché essi discendevano dall’Uomo, se l’Uomo è esistito davvero devono essere esistiti anche i Mutanti.

L’intera disputa sorta intorno alla leggenda può essere sintetizzata in una sola domanda: L’Uomo è esistito? Se, leggendo queste storie, il lettore si trova confuso, può consolarsi, perché egli sarà sempre in eccellente compagnia. Gli stessi esperti e gli studiosi più grandi, che hanno trascorso la loro vita nello studio della leggenda, avranno forse un numero maggiore di elementi e di dati, ma sono confusi e perplessi quanto il più comune lettore.