«I calcoli sono esatti,» disse il robot. «E non possiamo farci niente. Tutto corrisponde. Non possiamo viaggiare nel passato. È un’impossibilità assoluta.»
«Non possiamo,» disse Joshua.
«Però,» disse Ichabod. «Noi sappiamo dove sono le ombre.»
«Sì,» disse Joshua. «Noi sappiamo dove sono le ombre. E forse possiamo raggiungerle. Ora conosciamo qual è la strada da prendere.»
Una strada era aperta, ma un’altra era chiusa. Ma non era chiusa, perché per chiudersi avrebbe dovuto esistere, e la strada non era mai esistita. Perché il passato non c’era, non era mai esistito, non c’era posto per lui. Dove avrebbe dovuto esserci un passato c’era un altro mondo.
Come due cani che camminavano l’uno sulle orme dell’altro. Quando la zampa di uno toccava l’orma dell’altro, l’altro aveva già tolto la sua zampa da quell’orma. Come una lunga, interminabile fila di palline rotolanti lungo una scanalatura alla stessa velocità, sempre quasi sul punto di toccarsi, ma senza mai arrivare a toccarsi davvero. Come gli anelli di un’infinita catena che scorresse su una ruota dentata, ma una ruota con un miliardo di miliardi di denti.
«Siamo in ritardo,» disse Ichabod, dando un’occhiata all’orologio. «Dovremmo già essere pronti ad andare alla festa di Jenkins.»
Joshua si diede un altro scrollone.
«Sì, immagino che tu abbia ragione. È un grande giorno per Jenkins, Ichabod. Pensaci… settemila anni.»
«Io sono prontissimo,» disse Ichabod, orgoglioso. «Mi sono dato una bella lucidata, stamattina, ma tu hai bisogno di una buona spazzolata. Hai tutto il pelo arricciato.»
«Settemila anni,» disse Joshua. «Io non vorrei vivere così a lungo.»
Settemila anni e settemila mondi che si susseguivano uno all’altro, uno sulle orme del precedente, all’infinito. Ma certo erano di più. Un mondo al giorno, forse. Trecentosessantacinque volte settemila. O forse un mondo al minuto. O forse ancora, perfino un mondo al secondo. Un secondo era una cosa grossa… abbastanza grossa da separare due mondi, abbastanza ampia da contenere due mondi. Trecentosessantacinque volte settemila volte ventiquattro volte sessanta…
Una cosa grossa e una cosa definitiva. Perché il passato non c’era. Non si poteva tornare indietro. Non c’era modo di ripercorrere a ritroso la corrente del grande fiume, per scoprire la verità sulle cose delle quali Jenkins parlava… le cose che avrebbero potuto essere vere, o che avrebbero potuto essere il prodotto di una memoria confusa da settemila anni di pensieri. Non si poteva tornare indietro per scoprire la verità sulle nebulose leggende che parlavano di una casa e di una famiglia di Webster e di una cupola chiusa di nulla ch’era acquattata torva sulle montagne di là dal mare.
Ichabod avanzò verso di lui con un pettine e una spazzola, e Joshua sobbalzò e cercò di raggomitolarsi al suolo.
«Ah, che sciocchezze,» disse Ichabod. «Una spazzolata non ti farà male.»
«L’ultima volta,» disse Joshua, «Per poco non mi hai scuoiato vivo. Vacci piano, mi raccomando.»
Il lupo era venuto, sperando in uno spuntino fuori programma, ma lo spuntino non gli era stato offerto, e il lupo era troppo educato per chiederlo. Così adesso sedeva, con la grande coda cespugliosa elegantemente avvolta intorno alle zampe, e guardava Peter, il quale lavorava con il coltello sulla sottile bacchetta di legno.
Ghianda, lo scoiattolo, si lanciò dal ramo di un albero sovrastante, e si posò leggero sulla spalla di Peter.
«Cosa stai facendo?» domandò.
«Un bastone da lancio,» disse Peter.
«Tu puoi lanciare tutti i bastoni che vuoi,» disse il lupo. «Non hai bisogno di prepararne uno apposta. Basta che tu raccolga il primo bastone che vedi, e poi lo lanci.»
«Questa è una cosa nuova,» spiegò Peter. «Una cosa che ho pensato io. Una cosa che ho fatto io. Ma non so di che si tratta.»
«Non ha un nome?» domandò Ghianda.
«Non ancora,» disse Peter. «Dovrò pensarne uno.»
«Ma,» insisté il lupo, «Tu puoi lanciare un bastone quando e come vuoi. Non hai bisogno di farne uno apposta.»
«Non così lontano,» disse Peter. «Non con tanta forza.»
Peter rigirò la bacchetta tra le dita, accarezzandone la liscia rotondità, la sollevò e se la portò all’altezza di un occhio, per vedere se era ben diritta.
«Non lo lancio con il braccio,» disse Peter. «Lo lancio con un altro bastone e con una corda.»
Si protese a raccogliere l’oggetto che aveva appoggiato al tronco dell’albero.
«Quello che non riesco a capire,» disse Ghianda, «È il motivo per cui tu voglia lanciare un bastone.»
«Non lo so,» disse Peter. «È divertente. È come un gioco.»
«Voi webster,» disse il lupo, con fare severo, «Siete degli strani animali. A volte mi chiedo se abbiate buon senso.»
«Puoi colpire qualunque punto tu prenda di mira,» disse Peter. «Se il bastone da lancio è diritto e la corda è buona. Non si può raccogliere semplicemente il primo pezzo di legno che si vede. Bisogna cercare e cercare…»
«Fammi vedere,» disse Ghianda.
«Si fa così,» disse Peter, sollevando il ramo di noce. «Lo vedi? È duro e flessibile. Se lo pieghi, scatta e torna diritto. Ho legato assieme le due estremità con una corda; fatto questo, basta collocare il bastone da lancio in questa posizione, così, con un’estremità appoggiata alla corda, e poi tirare indietro il bastone, così, e…»
«Hai detto che puoi colpire tutto quello che vuoi,» disse il lupo. «Avanti, facci vedere.»
«Che cosa devo colpire?» domandò Peter. «Scegliete voi. Ditemelo, e…»
Ghianda puntò la zampa, tutto eccitato.
«Quel pettirosso appollaiato sull’albero, guarda!»
Rapidamente, Peter alzò le mani, tirò indietro il bastone, e la corda fece piegare ad arco il ramo di noce. Il bastone da lancio sibilò nell’aria. Il pettirosso cadde dal ramo, in una pioggia di piume. L’animaletto colpì il terreno con un tonfo sordo e sommesso, e giacque immobile, supino… con le minuscole zampe impotenti e rattrapite puntate verso la cima degli alberi. Un filo di sangue gli colò dal becco e macchiò la foglia che aveva sotto il capo.
Ghianda si irrigidì sulla spalla di Peter, e il lupo balzò eretto sulle quattro zampe. E ci fu silenzio, il silenzio delle foglie immobili, delle nubi che galleggiavano nel cielo azzurro del pomeriggio.
L’orrore rese quasi incomprensibili le parole di Ghianda.
«L’hai ucciso! È morto! Tu l’hai ucciso.»
Peter protestò, paralizzato dalla paura.
«Io non sapevo. Non avevo mai cercato di colpire delle creature vive, prima d’ora. Ho semplicemente scagliato il bastone contro dei bersagli tra gli alberi…»
«Ma tu l’hai ucciso. E non si deve mai uccidere.»
«Lo so,» disse Peter. «Lo so che non si deve mai uccidere. Ma sei stato tu a dirmi di tirare. Sei stato tu a mostrarmi il pettirosso. Sei stato tu…»
«Ma io non volevo che tu l’uccidessi,» strillò Ghianda. «Credevo che l’avresti soltanto sfiorato. Per fargli prendere un po’ di paura. Era così grasso e pigro e…»
«Te l’avevo detto che il bastone andava veloce, che aveva molta forza.»
Il webster sembrava avere messo radici nel terreno, sembrava incapace di muoversi.
Lontano e con forza, pensò. Lontano e con forza… e veloce.
«Andiamo, non prendertela tanto, amico,» disse il lupo con voce gentile. «Sappiamo che non volevi farlo. La cosa rimarrà fra noi tre. Non diremo mai una parola a nessuno.»
Ghianda saltò via dalla spalla di Peter, raggiunse il ramo dell’albero e strillò:
«Io lo dirò,» I suoi strilli si fecero ancora più forti. «Io lo dirò, lo dirò, lo dirò! Andrò a dirlo a Jenkins.»
Il lupo ringhiò, preso da una collera improvvisa, gli occhi rossi e cattivi.
«Sudicio, piccolo piagnone. Lurida spia.»