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«Ma oggi queste condizioni non esistono più. Grazie all’aereo di famiglia, oggi cento miglia sono una distanza molto più breve che cinque miglia nel 1930. Gli uomini possono volare per diverse centinaia di chilometri, per raggiungere il proprio posto di lavoro e tornare a casa con lo stesso mezzo alla fine della giornata. La gente non ha più bisogno di vivere ammassata in una città.

«L’automobile ha dato inizio a questo processo e l’aeroplano di famiglia l’ha portato alla logica conclusione. Già nella prima metà del secolo questo processo era visibile… una tendenza ad allontanarsi dalla città, con le sue tasse e le sue condizioni di vita malsane, una tendenza al decentramento, una sempre maggiore espansione dalla periferia, un primo attacco alla campagna. La mancanza di mezzi di trasporto adeguati, e soprattutto di mezzi finanziari adeguati, tenne legati ancora molti alla città. Ma oggi, con le colture idroponiche che hanno distrutto il valore della terra, si può acquistare un largo appezzamento di terreno in campagna a un prezzo inferiore a quello di un appartamentino di città di quarant’anni or sono. E con gli aerei alimentati dall’energia atomica, non c’è più alcun problema di trasporto.»

Si interruppe, e nessuno ruppe il silenzio. Il sindaco aveva un’espressione sconvolta. King muoveva le labbra, ma non ne usciva alcun suono. Griffin stava sorridendo.»

«Così che cosa ci è rimasto?» domandò Webster. «Ve lo dico io quello che ci è rimasto. Strada dopo strada, isolato dopo isolato, di case deserte, abbandonate, case dalle quali gli abitanti sono usciti per non ritornare. E perché avrebbero dovuto restare? Che cosa poteva offrire loro la città? Nessuna delle cose che essa offriva alla generazione precedente, perché il progresso ha spazzato via il bisogno dei benefici offerti dalla città. Gli abitanti hanno perduto qualcosa, naturalmente, dal punto di vista economico e dal punto di vista affettivo, quando hanno lasciato le case. Ma il fatto di poter acquistare delle case due volte più buone per metà del prezzo di quelle che avevano lasciato, e il fatto di poter vivere a proprio piacimento, sfuggendo alle convenzioni della vita cittadina, ai sacrifici degli spazi angusti, del traffico congestionato, del verde mancante… il fatto, soprattutto, di poter costruire delle vere e proprie tenute, di poter accumulare dei patrimoni di famiglia, nella tradizione di coloro che hanno creato la ricchezza di questa nazione, nell’ultima generazione… tutte queste cose, e altre ancora, superavano e di molto il valore delle vecchie case abbandonate, e anche quel lato sentimentale che è presente in tutti noi.

«E a noi che è rimasto? Qualche isolato di uffici e di imprese commerciali. Qualche acro occupato da stabilimenti industriali. Un’amministrazione municipale organizzata per occuparsi di un milione di persone, ma senza quel milione di persone. Un bilancio le cui esigenze hanno fatto salire la pressione fiscale a tal punto che, entro breve tempo, anche le imprese commerciali dovranno trasferirsi per sfuggire a questa tassazione insostenibile. Un sistema fiscale che ci ha fatto requisire migliaia di case per il mancato pagamento delle tasse, lasciandoci con questo carico di proprietà inutili e senza valore. Ecco che cosa ci è rimasto.

«Se credete che la risposta ve la possano dare le Camere di Commercio, le campagne pubblicitarie, o chissà quale progetto pazzesco… ebbene, siete pazzi. C’è una sola risposta, ed è semplicissima. La città, come istituzione umana, è morta. Potrà forse sopravvivere per qualche anno, lottando faticosamente per sfuggire al suo destino, ma sarà sempre condannata. È finita.»

«Signor Webster…» disse il sindaco.

Ma Webster non gli prestò alcuna attenzione.

«Se non fosse per quello che è accaduto oggi,» disse, «Avrei continuato a recitare questa stupida commedia… avrei continuato a recitare con voi la commedia del bambino che gioca con la casa delle bambole. Avrei continuato a fingere che la città fosse un’entità viva, reale ed esistente. Avrei continuato a ingannare voi e me stesso. Ma esiste una cosa, signori, che si chiama dignità umana.»

Il silenzio gelido si frantumò in un fruscio di fogli, in qualche soffocato colpo di tosse di ascoltatori imbarazzati.

Ma Webster non aveva finito.

«La città ha fallito,» disse, «Ed è stato un bene che sia venuta meno ai motivi della sua esistenza. La città ha fallito, perché non c’è più alcun motivo per cui essa esista. E invece che restare seduti qui in gramaglie, a piangere sul suo povero cadavere, fareste meglio ad alzarvi in piedi e a gridare di gioia. Dovreste essere grati al progresso e al destino, che hanno reso inutile la città.

«Perché se questa città non avesse esaurito la sua funzione, il suo scopo, il motivo stesso della sua esistenza… se questa città, come tutte le altre città del mondo, non fosse stata abbandonata, signori, questa città sarebbe stata distrutta… tutte le città del mondo sarebbero state distrutte. Ci sarebbe stata una guerra, signori, vedete? Una guerra atomica. Avete forse dimenticato gli anni sessanta e gli anni cinquanta? Avete dimenticato come si viveva allora… quanti di voi si svegliavano di notte, allora, e tendevano l’orecchio, nel terrore di sentire scendere la bomba, e sapendo, sapendo troppo bene che se la bomba fosse caduta nessuno la avrebbe sentita, sapendo troppo bene che non avrebbero più udito nulla, se davvero la bomba fosse venuta? Avete dimenticato le esplosioni di violenza, la paura, la tensione di quegli anni… il terrore di una minaccia che nessuno vedeva, nessuno sentiva, nessuno poteva combattere, e che pure era là, pronta a colpire?

«Ma le città sono state abbandonate e le industrie si sono disperse per tutto il paese, e così non ci sono più stati bersagli e non c’è più stata la guerra.

«Alcuni tra voi, signori,» disse, «Molti tra voi, signori, sono vivi, oggi, perché la popolazione ha lasciato la vostra città.

«E adesso, per l’amor di Dio, lasciatela riposare in pace. Siate felici che sia morta. È la cosa più bella che sia mai capitata in tutta la storia umana.»

John J. Webster voltò le spalle al consiglio comunale, e lasciò la sala.

Fuori, sui grandi gradini di pietra, si fermò a guardare in alto il cielo azzurro e terso, vide i piccioni che descrivevano ampi circoli sopra le guglie e le torrette del municipio.

Si scosse mentalmente, come un cane appena uscito da un laghctto.

Era stato uno stupido, naturalmente. Adesso avrebbe dovuto cercare un lavoro, e ci sarebbe forse voluto del tempo prima di trovarne uno. Ed era già un po’ anziano per ricominciare tutto da capo, per cercare un nuovo lavoro.

Eppure, malgrado i suoi pensieri, un motivetto sommesso gli salì alle labbra. Si allontanò rapidamente, sorridendo, fischiettando piano.

Basta con l’ipocrisia. Basta con le notti trascorse in bianco a chiedersi cosa doveva fare… sapendo che la città era morta, sapendo che lui faceva un lavoro inutile, sentendosi un parassita, perché riscuoteva uno stipendio che non meritava perché non faceva nulla di utile per guadagnarselo. Basta con quella strana, esasperante frustrazione tipica di chi lavora sapendo che il suo lavoro non serve a nulla.

Si diresse verso l’eliparcheggio, si diresse verso il suo elicottero.

Adesso, forse, pensò, potremo trasferirci in campagna, come voleva Betty.

Forse adesso lui avrebbe potuto trascorrere le sue serate a passeggiare su della terra che gli apparteneva. Ci voleva un torrente, però. Decisamente ci voleva un torrente, che lui avrebbe riempito di trote.

Appena arrivato a casa avrebbe dovuto salire in solaio, a controllare le condizioni delle sue canne da pesca.

Martha Johnson stava aspettando davanti al recinto dell’aia, quando la vecchia auto apparve, sbuffando e ansimando, in fondo al viottolo.

Ole scese rigidamente, con il volto segnato dalla stanchezza.