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Ichabod si accovacciò sul pavimento e guardò Jenkins.

«Che non ci sia è sicuro,» disse. «Abbiamo controllato i calcoli, per quaranta volte da domenica, e tutte le volte i fattori concordano. È tutto esatto. Non esiste nessun passato.»

«Non c’è spazio per il passato,» aggiunse Joshua. «Se tu viaggi a ritroso lungo la linea del tempo non trovi il passato, ma un altro mondo, un’altra parentesi di coscienza. Troveresti la stessa Terra, vedi, o almeno quasi la stessa. Gli stessi alberi, gli stessi fiumi, le stesse colline, ma non sarebbe più il mondo che conosciamo. Perché questo mondo ha vissuto una vita diversa, si è sviluppato in maniera diversa. Il secondo dietro di noi non è affatto il secondo dietro di noi, ma un altro secondo, una sezione del tempo totalmente separata e diversa. Noi viviamo sempre nello stesso secondo. Ci muoviamo entro la parentesi di quel secondo, quel minuscolo frammento di tempo che è stato assegnato al nostro mondo.»

«La colpa è del modo in cui abbiamo considerato il tempo,» disse Ichabod. «È stata questa la cosa che ci ha impedito di considerarlo com’era in realtà, perché noi abbiamo sempre pensato di passare attraverso il tempo, muovendoci dal passato verso il futuro, mentre invece non era così, non è stato mai così. Ci siamo semplicemente mossi insieme al tempo. Abbiamo sempre detto: ecco un altro secondo che passa, ecco un altro minuto e un’altra ora e un altro giorno, quando invece, in realtà, il secondo e il minuto e l’ora non erano mai passati. Era sempre lo stesso tempo, sempre lo stesso, per sempre. Era sempre lo stesso secondo che si muoveva in avanti, e noi ci eravamo mossi con lui.»

Jenkins annuì.

«Capisco. Come un tronco portato dalla corrente del fiume. Il tronco si muove con il fiume. E la scena cambia, lungo la riva del fiume, ma l’acqua è sempre la stessa.»

«È più o meno così, approssimativamente,» disse Joshua. «Solo che il tempo è una corrente rigida e i diversi mondi sono fissati al loro posto molto più rigidamente di un tronco sul fiume.»

«E le ombre vivono in questi altri mondi?»

Joshua annuì.

«Ne sono certo.»

«E adesso,» disse Jenkins, «Immagino che tu stia elaborando un sistema per viaggiare in questi altri mondi.»

Joshua si grattò leggermente, alla ricerca di una pulce molesta.

«Certo che ci sta lavorando,» disse Ichabod. «Abbiamo bisogno dello spazio.»

«Ma le ombre…»

«Le ombre potrebbero anche non essere su tutti i mondi,» disse Joshua. «Potrebbe esservi qualche mondo disabitato. Se riusciremo a trovarlo, ne avremo bisogno, molto bisogno. Se non riusciamo a trovare lo spazio, avverrà un disastro. La pressione della popolazione porterà un’ondata di uccisioni. E un’ondata di uccisioni ci riporterebbe al punto dal quale siamo partiti.»

«Ci sono già delle uccisioni,» gli disse Jenkins, sottovoce.

Joshua raggrinzì il muso in un’espressione incredula, e abbassò le orecchie.

«Delle strane uccisioni. Le vittime sono morte, ma non sono state mangiate. Non c’è sangue. Come se le vittime fossero semplicemente cadute a terra, morte. I nostri medici sono quasi impazziti, per cercare una risposta. Non ci sono cause apparenti di morte. Gli organi sono intatti. Non c’è alcun motivo per cui le vittime debbano essere morte.»

«Ma sono morte,» disse Ichabod.

Joshua si avvicinò alla vecchia sedia, e abbassò la voce.

«Ho paura, Jenkins. Ho paura che…»

«Non c’è niente da temere.»

«Ma ti sbagli, Jenkins. Angus mi ha detto… Angus teme che una delle ombre… che una delle ombre sia venuta tra noi.»

Un soffio di vento ululò nella cappa del camino e sibilò sul tetto e mosse le fronde degli alberi antichi. Un’altra folata di vento sibilò in qualche angolo vicino, nel buio. E la paura uscì dal vento e marciò sul tetto, marciò con passi sordi e soffocati nei corridoi silenziosi e nelle stanze buie, e il vento le volava intorno, freddo e pungente e profumato di cose buie e lontane.

Jenkins rabbrividì e si costrinse a restare rigido ed eretto, perché un robot non può e non deve tremare, e invece un altro brivido stava percorrendo sinuosamente il suo corpo.

«Nessuno ha visto un’ombra.»

«Forse le ombre non si vedono.»

«Sì,» disse Jenkins. «Sì, forse le ombre non si vedono.»

Ed è quello che l’Uomo ha già detto un tempo, pensò Jenkins. Gli spiriti non si vedono e le ombre non si vedono e i fantasmi non si vedono… ma si sente, con qualche senso nascosto e segreto, che le ombre e i fantasmi e gli spiriti sono là, nell’angolo buio, e ti guardano e pulsano di vita segreta vicino a te. E ti accorgi che esistono, perché l’acqua continua a gocciolare anche quando tu hai chiuso il rubinetto, e si odono delle dita che battono e stridono alle finestre, e i cani si mettono a ululare nel cuore della notte, e si rifugiano nell’angolo più caldo e tremano e ringhiano contro qualcosa che non si può vedere, e nella neve fresca, fuori, non si vedono tracce.

E si udirono delle dita che battevano contro la finestra.

Joshua balzò sulle quattro zampe e si irrigidì, parve diventare una statua, la statua di marmo di un cane, con una zampa sollevata, le labbra schiuse nel principio di un ringhio. Ichabod si acquattò ancor più sul pavimento… ascoltando, aspettando.

Il rumore si udì di nuovo.

«Apri la porta,» disse Jenkins a Ichabod. «C’è qualcuno là fuori, che vuole entrare.»

Ichabod si mosse nel silenzio ovattato e sinistro della stanza. La porta scricchiolò, quando la sua mano cominciò ad aprirla. E quando la porta fu aperta, uno scoiattolo entrò di corsa, una piccola cosa grigia e veloce che spiccò un balzo verso Jenkins e piombò sulle sue ginocchia.

«Sei tu, Ghianda!» esclamò Jenkins.

Joshua tornò ad acquattarsi al suolo e le sue labbra si chiusero, nascosero di nuovo i denti aguzzi. Ichabod aveva un sorriso sciocco, un sorriso di metallo sul viso di metallo.

«L’ho visto, l’ho visto,» strillò Ghianda. «L’ho visto uccidere il pettirosso. L’ha fatto con un bastone da lancio. E le piume volavano tutt’intorno. E c’era del sangue sulla foglia.»

«Calmati,» disse Jenkins, con dolcezza. «Calmati, non fare troppo in fretta, e dimmi cos’è successo. Tu hai visto qualcuno uccidere un pettirosso?»

Ghianda respirava affannosamente, e batteva forte i denti.

«È stato Peter,» disse.

«Peter?»

«Peter, il webster.»

«Hai detto che ha lanciato un bastone?»

«L’ha lanciato con un altro bastone. Aveva legato insieme le due estremità con una corda, e lui ha spinto sulla corda e il bastone si è piegato…»

«Lo so,» disse Jenkins. «Lo so.»

«Tu lo sai! Sai tutto di quella cosa?»

«Sì,» disse Jenkins; «Sì, so tutto di quella cosa. Erano un arco e una freccia.»

E c’era qualcosa, nel suo tono, mentre pronunciava quelle parole, che costrinse gli altri tre a tacere, e fece sembrare la stanza grande e vuota, e il rumore del ramo che batteva contro la finestra pareva venire da lontano, da molto lontano, come una voce cupa e lamentosa che continuava a piangere senza speranza di aiuto.

«Un arco e una freccia?» chiese alla fine Joshua. «Cosa sono un arco e una freccia?»

E che cos’erano? pensò Jenkins.

Cosa sono un arco e una freccia?

Sono il principio della fine. Sono i sentieri tortuosi che si uniscono e s’ingrossano fino a raggiungere la strada ruggente della guerra.

Sono un gioco e un’arma e un trionfo dell’ingegno umano.

Sono i primi deboli vagiti di una bomba atomica.

Sono il simbolo di un sistema di vita.

E sono la strofa di una filastrocca infantile.

Chi ha ucciso il pettirosso?

Io, disse il passero.

Con l’arco e con la freccia,

Io ho ucciso il Pettirosso.

E sono anche una cosa dimenticata. E una cosa imparata di nuovo.