Le avrebbe mangiate e le avrebbe prese tra le zampe e se le sarebbe spiaccicate sul muso. Ci si sarebbe perfino rotolato in mezzo.
Con la coda dell’occhio vide le cose frettolose che correvano nell’erba, come formiche, pensò, solo che non erano formiche. Almeno, non erano simili alle formiche che lui aveva visto in passato.
Pulci, forse. Una nuova razza di pulci.
Mosse rapidamente la zampa e raccolse una delle creature. La sentì correre nel cavo della zampa. Aprì la zampa e vide la creatura correre disperatamente tutt’intorno, e allora richiuse subito la zampa.
Poi si portò la zampa all’orecchio e ascoltò.
La creatura che lui aveva preso stava ticchettando!
Il campo dei robot selvaggi non era affatto come Homer se l’era immaginato. Non c’erano edifici. C’erano solo rampe di lancio e tre astronavi e mezza dozzina di robot che lavoravano intorno a una delle astronavi.
Eppure, a pensarci bene, si disse Homer, lui avrebbe dovuto saperlo, che in un campo di robot non avrebbe trovato degli edifici. Perché i robot non avevano bisogno di un riparo, e cos’era un edificio, se non un riparo?
Homer era spaventato a morte, ma cercava con tutta la sua forza di volontà di non mostrarlo. Arrotolò la coda sopra le reni, tenne la testa bene eretta, e trotterellando avanzò verso il piccolo gruppo di robot, senza la minima esitazione. Quando li raggiunse, sedette al suolo, con la lingua penzoloni, e aspettò che uno dei robot gli parlasse.
Ma quando vide che nessuno dei robot gli parlava, radunò tutto il suo coraggio e si decise a parlare per primo.
«Mi chiamo Homer,» disse. «E rappresento i Cani. Se avete un capo dei robot, vorrei parlargli.»
I robot continuarono a lavorare per un minuto almeno, ma finalmente uno di loro si voltò e si avvicinò e si acquattò per terra accanto a Homer, abbassandosi in modo che la sua testa fosse all’altezza di quella del cane. Tutti gli altri robot continuarono a lavorare come se niente fosse accaduto.
«Io sono un robot di nome Andrew,» disse il robot acquattato accanto a Homer. «E non sono quello che tu chiameresti un capo dei robot, perché non abbiamo questo genere di cose tra noi. Ma io posso parlare con te.»
«Sono venuto da voi a causa della Costruzione,» gli disse Homer.
«Immagino,» disse il robot di nome Andrew, «Che tu stia parlando della struttura che si trova a nord-est del luogo dove ci troviamo. Quella che puoi vedere anche da qui, se ti volti.»
«È di quella che io parlo,» disse Homer. «Sono venuto a chiedervi perché voi la state costruendo.»
«Ma noi non la stiamo costruendo,» disse Andrew.
«Abbiamo visto dei robot lavorarci intorno.»
«Sì, ci sono dei robot che lavorano là. Ma non siamo noi a costruirla.»
«State aiutando qualcun altro?»
Andrew scosse il capo.
«Alcuni di noi ricevono una chiamata… una chiamata ad andare a lavorare là. Gli altri robot non cercano di fermarli, perché qui siamo tutti liberi.»
«Ma chi la costruisce, allora?» domandò Homer.
«Le formiche,» disse Andrew.
Homer sbalordì.
«Le formiche? Intendi parlare degli insetti? Delle piccole creature che vivono nei formicai?»
«Precisamente, disse Andrew. Fece scorrere le dita di una mano sulla sabbia, imitando il movimento di una formica che corre.
«Ma le formiche non possono costruire un luogo simile,» protestò Homer. «Sono stupide.»
«Non lo sono più,» disse Andrew.
Homer rimase immobile, raggelato sulla sabbia, e sentì dita gelide di terrore scorrergli veloci in tutto il corpo.
«Non lo sono più,» disse Andrew, parlando tra sé. «Non sono più stupide. Vedi, in un tempo lontano, c’era un uomo di nome Joe…»
«Un uomo? Che cosa sarebbe?» chiese Homer.
Il robot fece un rumore strano, come se volesse rimproverare bonariamente Homer.
«Gli uomini erano degli animali,» disse il robot. «Animali che camminavano su due gambe. Somigliavano molto a noi, solo che loro erano di carne e noi siamo di metallo.»
«Tu devi parlare dei webster,» disse Homer. «Sappiamo dell’esistenza di creature quali tu descrivi, ma le chiamiamo webster.»
Il robot annuì lentamente.
«Sì, i webster potrebbero essere uomini. C’era una loro famiglia che portava quel nome. Abitava proprio di là dal fiume.»
«Là dove tu dici, esiste un luogo chiamato Casa dei Webster,» disse Homer. «Sorge sulla cima della Collina dei Webster.»
«Quello è il luogo che dico,» fece Andrew.
«Noi la conserviamo,» disse Homer. «Per noi è come un tempio, ma non riusciamo a capirne il motivo… È la parola che è stata tramandata fino a noi… dobbiamo conservare la Casa dei Webster.»
«I webster,» gli disse Andrew, «Sono coloro che hanno insegnato a voi Cani a parlare.»
Homer si irrigidì.
«Nessuno ci ha insegnato a parlare. Siamo stati noi a imparare. Abbiamo impiegato molti e molti e ancora molti anni per evolverci. E poi abbiamo insegnato a tutti gli altri animali.»
Andrew, il robot, sedeva curvo nel sole, e annuiva lentamente, come se ricordasse tra sé cose che Homer non poteva sapere.
«Diecimila anni,» disse. «No, forse sono dodicimila. Diciamo circa undicimila.»
Homer aspettò e mentre aspettava sentì il peso degli anni che schiacciavano le colline… gli anni del fiume e del sole, della sabbia e del vento e del cielo.
E gli anni di Andrew.
«Tu sei vecchio,» disse. «Puoi ricordare un’epoca così lontana?»
«Sì,» disse Andrew. «Benché io sia stato uno degli ultimi robot creati dalle mani dell’uomo. Sono stato creato solo pochi anni prima che gli uomini andassero su Giove.»
Homer rimase in silenzio, e i suoi pensieri erano tumultuosi.
Uomo… una parola nuova.
Un animale che camminava su due gambe.
Un animale che aveva creato i robot, che aveva insegnato ai Cani a parlare.
«Non avreste dovuto restare così divisi da noi,» disse il robot. «Avremmo dovuto lavorare insieme. Un tempo abbiamo lavorato insieme. Avremmo guadagnato entrambi, se avessimo lavorato insieme.»
«Avevamo paura di voi,» disse Homer. «E io ho ancora paura di voi.»
«Sì,» disse Andrew. «Sì, immagino che sia così. Immagino che Jenkins vi abbia ispirato questa paura di noi, e l’abbia conservata e alimentata nel corso del tempo. Perché Jenkins era saggio. Sapeva che voi dovevate restare puri. Sapeva che non dovevate conservare il ricordo dell’Uomo come un peso morto sulla vostra schiena.»
Homer restò in silenzio.
«E noi,» disse il robot. «Non siamo niente di più del ricordo dell’Uomo. Noi facciamo le cose che egli faceva, solo che le facciamo più scientificamente perché, essendo delle macchine, dobbiamo essere scientifici. Le facciamo con maggiore pazienza dell’Uomo, perché noi abbiamo l’eternità ed egli aveva soltanto pochi anni.»
Andrew tracciò due linee nella sabbia, e poi altre due lìnee che tagliavano perpendicolarmente le prime. Tracciò una X nel quadrato aperto, formato dall’angolo in alto a sinistra.
«Tu pensi che io sia pazzo,» disse. «Tu credi che io dica cose senza senso.»
Homer affondò più profondamente le anche nella sabbia.
«Non so cosa pensare,» disse. «Sono passati tanti anni…»
Andrew tracciò una O col dito nel quadrato centrale del disegno che aveva tracciato nella sabbia.
«Lo so,» disse. «Sono passati tanti anni, e per tutti questi anni voi avete vissuto con un sogno. L’idea che i Cani siano stati i primi. E i fatti sono duri da comprendere, duri da conciliare con il sogno. Forse sarebbe meglio che dimenticassi ciò che ti ho detto. I fatti, a volte, sono cose dolorose. Un robot deve lavorare su di essi, perché sono le sole cose sulle quali egli può lavorare. Noi non possiamo sognare, vedi. I fatti sono tutto quello che abbiamo.»
«Noi abbiamo superato i fatti già da molto tempo,» gli disse Homer. «Non li abbiamo abbandonati del tutto, perché a volte li usiamo. Ma lavoriamo in altri modi. Abbiamo l’intuizione e lo studio delle ombre e l’ascolto.»