«E che cosa sta facendo adesso Hezekiah?»
«Niente,» disse Homer. «Ma siamo certissimi su quello che farà non appena il robot avrà terminato il suo lavoro. Riceverà la Chiamata. Riceverà la Chiamata e andrà a lavorare alla Costruzione.»
Jenkins annuì.
«Un controllo automatico,» disse. «Le formiche non possono fare da sole un lavoro simile, così prendono possesso di coloro che lo possono fare per mezzo di un controllo automatico.»
Sollevò di nuovo la mano e se la passò sul mento.
«Mi chiedo se Joe lo sapesse,» mormorò. «Quando ha giocato a fare il dio con le formiche, mi chiedo se Joe lo sapesse.»
Ma questo era ridicolo. Joe non avrebbe mai potuto saperlo. Neppure un mutante come Joe avrebbe potuto vedere dodicimila anni nel futuro.
È passato tanto tempo, pensò Jenkins. Sono accadute tante cose. Bruce Webster aveva appena iniziato i suoi esperimenti sui cani, aveva cominciato a sognare il suo grande sogno… cani capaci di parlare e di pensare, che avrebbero percorso il sentiero del destino a fianco dell’Uomo, mano nella zampa… senza sapere che l’Uomo, nel giro di pochi, brevi secoli, si sarebbe disperso ai quattro venti dell’eternità, e avrebbe lasciato la Terra ai robot e ai cani. Senza sapere che perfino il nome dell’Uomo sarebbe stato dimenticato nella polvere dei secoli, e che la razza umana sarebbe stata conosciuta con il nome di una sola famiglia.
Eppure, pensò Jenkins, se l’Uomo doveva essere conosciuto con il nome di una sola famiglia, era giusto che la famiglia fosse quella dei Webster. Li ricordo, li ricordo come se fosse ieri. Quelli erano i giorni nei quali anch’io mi consideravo un Webster.
Lo sa il Signore quanto ho tentato di essere degno di quel nome. Ho fatto del mio meglio. Sono rimasto accanto ai cani dei Webster quando la razza degli uomini è partita per sempre e alla fine ho portato gli ultimi pericolosi superstiti di quella razza folle in un altro mondo, perché i Cani avessero la strada aperta e libera… perché i Cani potessero modellare la Terra secondo il loro piano, seguendo il loro sogno.
E ora anche quegli ultimi, pericolosi superstiti se ne sono andati… sono partiti per un luogo lontano, chissà dove, chissà come… vorrei tanto saperlo. Sono fuggiti dietro qualche fantasia della mente umana. Anche loro se ne sono andati. E gli uomini che si trovano su Giove non sono più neppure uomini, ma qualcosa di diverso, qualcosa di alieno. E Ginevra è chiusa… isolata dal mondo, bloccata per sempre.
Però non potrà essere più lontana o chiusa più ermeticamente del mondo dal quale sono venuto. Se soltanto riuscissi a scoprire in qual modo sono riuscito a viaggiare dal mondo delle ombre nel quale ero esiliato, fino a raggiungere la Casa dei Webster… allora forse, in un modo o nell’altro, potrei raggiungere Ginevra.
Un potere nuovo, si disse. Un nuovo talento. Una cosa cresciuta dentro di me, senza che io me ne rendessi conto. Una cosa che ogni uomo e ogni robot… e forse ogni cane… potrebbe avere, se solo conoscesse il modo.
Forse, però, è stato il mio corpo a renderla possibile… questo corpo che i Cani mi hanno donato nel giorno dei miei settemila anni. Un corpo che possiede più di quanto ogni altro corpo di carne e di sangue abbia potuto raggiungere. Un corpo che può conoscere i pensieri di un orso e i sogni di una volpe, che può ascoltare i piccoli pensieri dei topolini felici che corrono tra l’erba e nelle gallerie scavate nella terra umida.
L’appagamento del desiderio. Potrebbe trattarsi di questo. La risposta al desiderio strano, illogico e struggente delle cose che raramente sono e spesso, troppo spesso non possono essere. Ma che sono tutte possibili, se si riesce a far crescere, o a sviluppare, o a creare dentro di sé il nuovo talento che conduce il corpo e la mente all’appagamento del desiderio.
Camminavo su quella collina ogni giorno, ricordò Jenkins. Camminavo lassù perché non potevo restare lontano, perché il desiderio e la nostalgia erano così forti, troppo forti per me. E mi facevo forza per non guardare troppo attentamente, perché se avessi guardato avrei visto le differenze tra quel mondo e la Terra lontana… e vicina a un tempo… e quelle differenze io non le volevo vedere.
Ho camminato lassù per un miliardo di volte e c’è voluto quel miliardo di volte prima che il potere latente dentro di me fosse abbastanza forte da farmi tornare indietro.
Perché io ero in trappola. Le parole, i pensieri, i concetti che mi avevano portato nel mondo delle ombre costituivano un biglietto di sola andata e quel biglietto mi ha portato là, ma non poteva farmi tornare indietro. Ma esisteva un altro modo, un modo che non conoscevo. Che neppure adesso conosco.
«Hai detto che c’era un modo,» disse Homer, ansioso.
«Un modo?»
«Sì, un modo per fermare le formiche.»
Jenkins annuì.
«Voglio scoprirlo. Andrò a Ginevra.»
Jon Webster si svegliò.
E questo è strano, pensò, perché ho chiesto l’eternità. Dovevo dormire per sempre, e per sempre non ha mai fine.
Tutto il resto era nebbia e grigiore di oblio sonnolento, ma questo concetto si stagliava nella sua mente con chiarezza cristallina. L’eternità. E questa non era l’eternità.
Una parola gli bussava alla mente, come se qualcuno bussasse dolcemente a una porta lontana, molto lontana.
Giacque nella nebbia e nel grigiore e ascoltò bussare alla porta della sua mente sonnolenta, e la parola si trasformò in due parole… parole che dicevano il suo nome:
«Jon Webster. Jon Webster.» Ancora e ancora, ancora e ancora. Due parole che battevano gentili alla porta della sua mente.
«Jon Webster.»
«Jon Webster.»
«Sì,» disse la mente di Webster, e le due parole si fermarono e non tornarono di nuovo.
Silenzio, e le nebbie dell’oblio si diradavano. E come l’inizio di una sorgente in una grotta, le gocce dei ricordi cominciarono a cadere, con un stillicidio lento e sicuro. Una cosa per volta.
C’era una città e il nome della città era Ginevra.
Degli uomini vivevano nella città, ma erano uomini senza uno scopo.
I Cani vivevano fuori della città… in tutto il mondo, fuori della città. I Cani avevano uno scopo e un sogno.
Sarà saliva sulla collina per prendere un secolo di sogni.
E io… io, pensò Jon Webster, sono salito sulla collina e ho chiesto l’eternità. E questa non è l’eternità.
«Sono Jenkins, Jon Webster.»
«Sì, Jenkins,» disse Jon Webster, eppure non lo disse; non lo disse con le labbra e con la lingua e con la gola, perché sentiva il fluido che gli premeva tutto il corpo, all’interno del cilindro, il fluido che lo nutriva e gli impediva di disidratarsi. Il fluido che sigillava le sue labbra e i suoi occhi e le sue orecchie.
«Sì, Jenkins,» disse Webster, parlando con la mente. «Ti ricordo. Adesso ti ricordo. Tu sei stato con la famiglia fin dall’inizio. Tu ci hai aiutati a insegnare ai Cani. Tu sei rimasto con loro anche quando la famiglia non c’era più.»
«Sono ancora con loro,» disse Jenkins.
«Io ho cercato l’eternità,» disse Webster. «Ho chiuso la città e ho cercato l’eternità.»
«Spesso ci siamo chiesti,» disse Jenkins, «Perché sia stata chiusa la città.»
«I Cani,» disse la mente di Webster. «I Cani dovevano avere la loro opportunità. L’Uomo avrebbe rovinato questa opportunità.»
«I Cani si comportano bene,» disse Jenkins.
«Ma la città ora è aperta?»
«No, la città è ancora chiusa.»
«Ma tu sei qui.»
«Sì, ma sono il solo che conosce il modo di entrare. E non ci saranno altri. Non per molto tempo, almeno.»
«Tempo,» disse Webster. «Avevo dimenticato il tempo. Quanto tempo è passato, Jenkins?»
«Da quando la città è stata chiusa? Diecimila anni.»
«E ci sono degli altri?»
«Sì, ma stanno dormendo.»
«E i robot? I robot vigilano ancora?»
«I robot vigilano ancora.»
Webster giacque in silenzio e una grande pace scese sopra di lui. La città era ancora chiusa e gli ultimi uomini stavano dormendo. I Cani si comportavano bene e i robot vigilavano ancora.