«Non avresti dovuto svegliarmi,» disse. «Avresti dovuto lasciarmi dormire.»
«C’era una cosa che dovevo conoscere. Un tempo la conoscevo, ma l’ho dimenticata ed è molto semplice. Semplice, eppure terribilmente importante.»
Webster ridacchiò mentalmente.
«Di che si tratta, Jenkins?»
«Si tratta delle formiche,» disse Jenkins. «Un tempo le formiche molestavano gli uomini. Cosa facevano gli uomini per impedirlo?»
«Bene, le avvelenavamo,» disse Webster.
Jenkins rimase attonito.
«Avvelenarle!»
«Sì,» disse Webster. «Una cosa semplicissima. Usavamo una sostanza dolce, per attirare le formiche. E in quella sostanza mettevamo del veleno, un veleno mortale per le formiche. Ma non tanto da ucciderle immediatamente. Si trattava di un veleno a effetto lento, vedi, in modo che esse avessero il tempo di portarlo nel formicaio. In questo modo potevamo ucciderne molte in una volta sola, invece che due o tre soltanto.»
Il silenzio pulsò nella mente di Webster… il silenzio senza pensieri e senza parole, il silenzio completo.
«Jenkins,» disse. «Jenkins, sei ancora…»
«Sì, Jon Webster, sono qui.»
«È tutto quello che vuoi?»
«È tutto quello che voglio.»
«Posso riprendere il mio sonno?»
«Sì, Jon Webster. Puoi riprendere il tuo sonno.»
Jenkins era in piedi sulla cima della collina e sentiva il primo vento dell’inverno annunciare gelido la nuova stagione per tutta la terra. Sotto di lui il pendio che portava al fiume era nero e grigio degli scheletri spogli degli alberi dai quali le foglie erano cadute.
Verso nord-est si levava la forma oscura, la grande nube di cattivo presagio ch’era stata chiamata la costruzione’. Una cosa che cresceva, nata dalla mente delle formiche, costruita per uno scopo e per un fine che nessuna creatura, a eccezione di una formica, avrebbe potuto neppure lontanamente indovinare.
Ma c’era un modo di trattare le formiche.
Il modo umano.
Il modo che Jon Webster gli aveva detto dopo diecimila anni di sonno. Un modo semplice e un modo radicale, un modo brutale ma efficace. Bastava un po’ di sostanza dolce, una sostanza che piacesse alle formiche, e si metteva del veleno… un veleno lento, che non uccidesse troppo presto le formiche.
Il veleno, pensò Jenkins. Il modo semplice. Il modo più semplice.
Solo che per usarlo era necessaria la chimica, e i Cani non la conoscevano.
Solo che per usarlo era necessario uccidere, e non si uccideva più.
Neppure le pulci si uccidevano, e i Cani erano tormentati oltre ogni misura dalle pulci. Neppure le formiche si uccidevano… e le formiche minacciavano di privare gli animali del mondo che era stato la loro culla e la loro casa.
Nessuno aveva più ucciso, per cinquemila anni e più. Il concetto stesso di uccidere era stato sradicato dalla mente di tutte le creature.
Ed è meglio così, si disse Jenkins. È meglio perdere un mondo, che ricominciare a uccidere.
Si voltò, lentamente, e cominciò a scendere verso il fiume.
Homer sarebbe rimasto deluso, pensò.
Terribilmente deluso, sapendo che i webster non avevano alcun modo di trattare con le formiche…
epilogo
E accadde tutto in quel giorno, quello tra tutti i giorni, anche se Jenkins non avrebbe saputo dire in quale giorno…
Mentre Jenkins stava attraversando il prato, il Muro era crollato rovinosamente…
Jenkins sedeva sulla veranda della Casa dei Webster, e ricordava quel giorno lontano, molto lontano, nel quale l’uomo venuto da Ginevra aveva fatto ritorno alla Casa dei Webster, per dire a un cagnolino che anche Jenkins faceva parte della famiglia, era un Webster. E quello era stato un giorno d’orgoglio per lui, si stava ripetendo per la miliardesima volta Jenkins, un giorno d’orgoglio…
Jenkins stava attraversando il prato per unirsi ai piccoli topi di campo, per diventare uno di loro, per correre un poco insieme a loro nelle gallerie che avevano scavato tra l’erba. Lo faceva spesso, anche se non si trattava di una grande soddisfazione: i topolini erano creature stupide, che non capivano né si curavano di nulla; c’era però un certo calore in loro, una quieta sicurezza, un confortante senso di benessere… quiete e sicurezza, perché essi vivevano soli nel piccolo mondo del prato, e non c’era alcun pericolo, non c’era alcuna minaccia. Non era rimasto niente che potesse costituire una minaccia per loro. Perché erano rimasti loro soltanto… con l’unica compagnia dei pochi insetti e dei vermi che costituivano il loro cibo.
In passato Jenkins si era domandato più volte per quale motivo i topi fossero rimasti là, soli, mentre tutti gli altri animali avevano seguito i Cani in uno dei mondi delle ombre. Anche loro avrebbero potuto partire, naturalmente. I Cani li avrebbero portati con loro, ma in loro non c’era stato alcun desiderio di partire. Forse i topolini erano stati contenti, allora, del posto in cui si trovavano; o forse in loro c’era stato un senso della casa troppo radicato per permetter loro di partire.
I topi e me, pensava Jenkins. Perché anche lui avrebbe potuto partire. Avrebbe potuto partire anche adesso, se lo avesse voluto. In qualsiasi momento, avrebbe potuto partire. Ma, come i topi, lui non era partito, era rimasto. Lui non poteva lasciare la Casa dei Webster. Senza di essa, gli sarebbe mancata più della metà di se stesso.
Così lui era rimasto, e la Casa dei Webster sorgeva ancora. Anche se non ci sarebbe più stata, pensò Jenkins, se non fosse stato per lui. L’aveva conservata pulita e in ordine; l’aveva riparata tante volte. Quando aveva visto che una delle pietre cominciava a sgretolarsi, ne aveva scelto un’altra, e l’aveva modellata amorevolmente, e l’aveva sistemata con ogni cura al posto della vecchia; e se per qualche tempo era sembrata troppo nuova e troppo recente, come un’ospite aliena per l’antica casa, il tempo aveva messo rimedio a questo… ci avevano pensato il vento e il sole e le stagioni, e il lento operare del muschio e dei licheni.
Jenkins aveva falciato l’erba del prato ed era stato un fedele giardiniere per i cespugli e le aiuole fiorite. La siepe era sempre regolare e perfetta. Non c’era mai un granello di polvere sui mobili, i pavimenti e le finestre erano immacolati… la casa era ancora in piedi. Era ancora in condizioni abbastanza buone, si diceva Jenkins con soddisfazione, per alloggiare un webster, se ne fosse venuto uno. Anche se non c’era speranza che questo accadesse. I webster che erano andati su Giove non erano più webster, e quelli di Ginevra stavano ancora dormendo… se, in effetti, Ginevra e i webster che la città ospitava esistevano ancora.
Perché le Formiche erano ormai padrone del mondo. Avevano fatto del mondo una sola, immensa costruzione, o almeno lui presumeva questo, poiché non poteva esserne realmente sicuro. Ma per quello che lui sapeva, entro la portata dei suoi sensi di robot (ed erano sensi molto acuti, e giungevano lontano), non c’era niente nel mondo, all’infuori dell’immenso, insensato edificio che le Formiche avevano costruito. Anche se non era del tutto onesto definirlo insensato, pensava Jenkins. Era impossibile sapere a quale scopo esso potesse servire. Era impossibile sapere quale scopo le Formiche avessero nella loro mente.
Le Formiche avevano racchiuso il mondo intero in un solo, grande edificio, ma si erano fermate sulla soglia della Casa dei Webster, e anche il motivo di questa loro esclusione era imperscrutabile. Le Formiche avevano costruito tutt’intorno alla Casa, facendo della Casa dei Webster e degli acri di terreno libero che la circondavano una specie di cortile aperto all’interno della Costruzione… un circolo di dieci chilometri, che aveva al centro la collina sulla quale la Casa dei Webster sorgeva ancora.
Jenkins camminava sul prato, sotto i raggi del sole autunnale, facendo molta attenzione a dove posava i piedi, per timore di fare del male ai topi. Perché lui era solo, a parte i topi, e questo era ben poco, perché i topi non erano gran cosa per alleviare la solitudine. I webster se ne erano andati, e così pure i Cani e gli altri animali. Anche i robot se ne erano andati, perché alcuni erano scomparsi già da molto tempo nei recessi della Costruzione, per aiutare le Formiche a portare a compimento il loro progetto, e gli altri erano partiti per le stelle. Ormai, pensava Jenkins, quei robot dovevano avere raggiunto la loro destinazione. Erano partiti tutti ormai da molto, moltissimo tempo, e in quel giorno Jenkins si domandava, per la prima volta dopo molte ère, quanto tempo fosse realmente passato. E aveva scoperto di non saperlo, e ora non lo avrebbe più potuto sapere, perché c’era stato quel remoto, remotissimo momento nel quale lui aveva cancellato dalla sua mente il senso del tempo. Aveva deliberatamente deciso di non tenere più conto dello scorrere del tempo, perché da come era il mondo allora, il tempo non aveva più alcun significato. Soltanto più tardi egli aveva compreso che l’obiettivo vero di quella sua decisione era stato la ricerca dell’oblio. Ma si era sbagliato. Cancellando il tempo, non aveva trovato l’oblio; ricordava ancora, ma disordinatamente, in sequenze disorganizzate e vacillanti e fuggevoli e ancora più vive e reali di quanto fossero state un giorno.