Periodicamente la macchina tornava al paracadute abbandonato, e ripeteva il meticoloso esame, come se si attendesse che qualcosa mutasse. Naturalmente, in un ambiente la cui temperatura toccava i trecentosettanta gradi Fahrenheit, la cui pressione era di ottocento atmosfere, e il cui clima consisteva in un miscuglio pesante di acqua, ossigeno e ossidi di zolfo, le cose cominciavano ad accadere assai in fretta; e un grande interesse era manifesto nell’avanzata del processo di corrosione che divorava progressivamente il metallo. Certe parti resistettero più a lungo di altre; senza dubbio i progettisti avevano incluso molte leghe diverse, forse proprio onde controllare questa particolarità. La macchina rimase nei pressi finché l’ultimo residuo di metallo non fu svanito, trasformato in fanghiglia.
A intervalli irregolari, durante questo periodo, la terra tremò con inusitata violenza. A volte le scosse erano accompagnate dagli schianti che per primi avevano colpito le «orecchie» della macchina; altre, il fenomeno si svolgeva in un relativo silenzio. Gli operatori dovevano essersi preoccupati del fenomeno, all’inizio; ma poi apparve chiaro che tutte le colline dei dintorni non avevano strapiombi di sorta, e che il terreno era libero da crepacci e da macigni, così era inutile preoccuparsi sugli effetti delle scosse sul meccanismo favolosamente costoso che esplorava il pianeta.
Un avvenimento assai più interessante fu l’apparizione di vita animale. Quasi tutte le creature erano piccole, ma questo non toglieva nulla al loro interesse, se le azioni della macchina potevano essere prese come indizio. Essa esaminò tutto ciò che appariva, avvicinandosi per quanto possibile. Molte delle creature erano squamose e octopodi; alcune sembravano vivere della vegetazione locale, altre, dei loro simili.
Quando finalmente il paracadute si fu del tutto dissolto, per un lungo periodo l’attenzione della macchina fu completamente polarizzata dagli animali. L’investigazione fu interrotta per brevi periodi, ma questo fu dovuto a una momentanea perdita di controllo e non alla disattenzione.
La mancanza di visibili lineamenti della superficie di Tenebra aveva impedito agli uomini di ottenere una misurazione accurata del periodo di rotazione del pianeta, e in diverse occasioni l’astronave si «sistemò» seguendo i movimenti della zona del pianeta che in quel momento rivestiva tanta importanza. Tentativi ed errori gradualmente diminuirono le incertezze sulla durata del giorno di Tenebra, e infine le interruzioni nel controllo sparirono.
Il progetto di studiare un pianeta tre volte più grande della Terra pareva alquanto ridicolo, se tentato con una singola macchina esploratrice. E se questo fosse stato il vero progetto, naturalmente esso sarebbe stato ridicolo; ma gli uomini avevano ben altro in mente. Una macchina non è molto; una macchina con un largo personale di assistenti, particolarmente se questo personale fa parte di una civiltà su scala più o meno mondiale, è tutt’altra cosa. Gli operatori speravano, con ragioni assai fondate, di trovare un aiuto locale… malgrado l’ambiente oltremodo scoraggiante nel quale era piombata la loro macchina. Erano uomini esperti, e non del tutto digiuni di conoscenze sugli aspetti diversi della vita nell’universo.
Comunque, le settimane trascorsero, e quindi i mesi, e non si manifestò alcun segno di creature provviste di qualcosa di più di un sistema nervoso rudimentale. Se gli uomini avessero saputo come far funzionare come osservatori gli strani animali locali, il loro compito sarebbe stato di molto facilitato; ma così come andavano le cose, la rassegnazione di trovarsi davanti a un lavoro che avrebbe richiesto secoli di attività cominciò a prendere piede in essi. Fu per puro caso che quando una creatura pensante si mostrò, fu scoperta dalla macchina. Se fosse accaduto il contrario… se cioè l’indigeno avesse scoperto la macchina… probabilmente la storia avrebbe seguito un corso diverso su molti pianeti.
La creatura, quando la videro, apparve massiccia. Alta non meno di nove piedi, su quel pianeta avrebbe dovuto pesare una buona tonnellata. Si adeguava all’uso locale per quanto riguardava le squame e il numero degli arti, ma camminava eretta su due delle appendici, sembrava non fare uso delle altre due più vicine, e usava le restanti quattro come appendici prensili. Questo fu il fatto che tradì la sua intelligenza; due lance lunghe e due più corte, fornite ciascuna di una punta di pietra accuratamente tagliata, erano impugnate con l’evidente intenzione di usarle alla prima occasione.
Forse la pietra deluse gli osservatori umani, o forse essi ricordavano ciò che accadeva ai metalli su quel pianeta, evitando così di balzare a un’affrettata conclusione sul livello della civiltà su quel pianeta, come appariva dall’uso di quegli strumenti. In ogni caso, essi osservarono attentamente l’indigeno.
Questo fu più facile di quanto avrebbe potuto essere; l’ambiente dell’incontro, a molte miglia di distanza dal punto dell’atterraggio, aveva dei contorni assai più accidentati. La vegetazione era più alta e meno friabile, sebbene fosse ancora impossibile evitare di lasciare una scia lungo il percorso della macchina. Gli uomini dapprima immaginarono che le piante più alte avessero impedito all’indigeno di vedere la macchina, che era relativamente piccola; poi fu evidente che l’attenzione della creatura era interamente occupata da qualcosa d’altro.
Essa stava avanzando lentamente, e, a quanto pareva, cercando di lasciare il minor numero possibile di segni del suo passaggio. Stava pure rimediando al fatto che era materialmente impossibile non lasciare tracce; si fermava a intervalli e costruiva una particolare struttura consistente di rami presi dalle formazioni arboree più alte e di punte di pietra, che la creatura estraeva da una riserva apparentemente inesauribile che si trovava in una sacca di cuoio appesa al suo corpo squamoso.
La natura di queste strutture fu chiara, dopo che l’indigeno si fu allontanato di quel tanto che permetteva una ispezione più ravvicinata. Erano trappole rudimentali, fatte per infilare una punta di pietra nel corpo di chiunque avesse seguito il percorso della creatura. La trappola doveva servire per gli animali, e non per gli altri indigeni, perché sarebbe stato facile evitarla seguendo parallelamente la traccia, e non passandoci sopra.
Il fatto, comunque, che questa precauzione venisse presa, rendeva l’intera situazione di estremo interesse, e alla macchina furono fatte seguire tutte le possibili precauzioni. L’indigeno percorse a questo modo quattro o cinque miglia, e durante questo periodo piazzò almeno quaranta di queste trappole. La macchina le evitò senza inconvenienti, ma svariate volte incappò in altre che dovevano essere state disposte in precedenza. Le punte non procurarono danni alla macchina; a dire il vero, molte si spezzarono contro la plastica. Cominciò ad apparire chiaro, comunque, che l’intera zona era stata «minata».
Infine la pista condusse a una collina rotondeggiante. L’indigeno la scalò di buon passo, e si fermò davanti a una stretta apertura che si trovava nei pressi della vetta. La creatura parve guardarsi in giro, alla ricerca di eventuali inseguitori, benché degli organi visivi non fossero stati individuati, fino a quel momento, dagli osservatori umani. Soddisfatta almeno in apparenza, la creatura tolse dal sacco un oggetto a forma di disco, lo esaminò con ogni cura muovendo abilmente le dita, e quindi scomparve nella caverna.
Ritornò dopo due o tre minuti, questa volta senza il suo fardello, che era grosso come un grappolo d’uva. Ridiscendendo la collina, evitò con ogni cura sia le sue trappole che le altre, e si avviò in una direzione diversa da quella di provenienza.
Gli operatori della macchina furono costretti a pensare in fretta. Dovevano seguire l’indigeno o scoprire che cosa aveva fatto sulla collina? La prima cosa poteva apparire più logica, dato che l’indigeno se ne stava andando, e ben difficilmente la collina avrebbe potuto imitarlo, ma fu la seconda alternativa che essi scelsero. Dopotutto, era impossibile che la creatura viaggiasse senza lasciar tracce inoltre, la notte si stava avvicinando, e così la creatura non sarebbe andata lontano. Non era troppo azzardato presumere che essa seguisse la caratteristica delle altre forme di vita animale di Tenebra, e cioè di piombare in uno stato di riposo poche ore dopo la caduta della notte.