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Era un seminterrato lasciato a metà e con il solito assortimento di scatoloni, attrezzi e oggetti vari, ancora in buono stato per essere gettati via ma del tutto inutili. Un paio di mobili da giardino parzialmente coperti da vecchi teli. Caldaia e boiler in un angolo. Lavanderia in un altro. E un altro angolo ancora era chiuso da un muro di blocchi di cemento alto fino al soffitto che creava una specie di stanzetta. La porta era di metallo e chiusa con un lucchetto.

Guardai Ranger. «Un rifugio antiatomico? Una dispensa sotterranea? Una cella frigorifera?»

«Accidenti» disse Ranger. Mi fece arretrare e sparò due serie di colpi disintegrando il lucchetto.

Aprimmo la porta e il puzzo di paura ed escrementi ci fece indietreggiare. La stanzetta era buia ma dall’angolo opposto intravedemmo degli occhi che ci guardavano. Il Luna e Dougie erano accucciati e si tenevano stretti. Erano nudi e luridi, avevano i capelli aggrovigliati, le braccia ricoperte di ferite sanguinanti. Erano stati ammanettati a un tavolo di metallo fissato al muro. Il pavimento era cosparso di bottiglie di plastica e buste del pane.

«Piccola» disse il Luna.

Mi sentii cedere le gambe e crollai su un ginocchio.

Ranger mi tirò su infilandomi una mano sotto l’ascella. «Non ora» disse. «Togli i teli dai mobili.»

Un altro paio di colpi di pistola. Ranger li stava liberando dal tavolo.

Il Luna era in condizioni migliori di Dougie. Dougie era rimasto in quella stanza per più tempo. Era dimagrito e sulle braccia aveva cicatrici di bruciature.

«Credevo che ci sarei morto, qui dentro» disse Dougie.

Io e Ranger ci guardammo. Se non fossimo intervenuti sarebbe probabilmente andata a finire così. Sophia non li avrebbe lasciati liberi dopo averli rapiti e torturati.

Li avvolgemmo nei teli e li portammo di sopra. Andai in cucina per chiamare la polizia e quello che vidi mi fece rimanere di stucco. Un paio di manette che penzolavano dal frigorifero. La porta del frigo era macchiata di sangue. Le due donne se ne erano andate.

Ranger era alle mie spalle. «Probabilmente si è liberata la mano a furia di morsi» disse.

Chiamai la polizia e dieci minuti dopo un’auto di servizio era già davanti al marciapiede. La seguivano un’altra auto e un’ambulanza.

Restammo a Richmond fino al tardo pomeriggio. Il Luna e Dougie furono reidratati e furono somministrati loro degli antibiotici. A Ranger suturarono e medicarono il braccio. Passammo gran parte del tempo alla stazione di polizia. Difficile spiegare alcune parti della storia. Tralasciammo il cuore di maiale che era in viaggio da Trenton. E decidemmo di non confondere le acque con il rapimento della nonna. La Corvette di Dougie fu ritrovata nel garage di Sophia. L’avrebbero rispedita a Trenton in settimana.

Ranger mi consegnò le chiavi della Mercedes quando lasciammo l’ospedale. «Non attirare l’attenzione» disse. «Non è il caso che la polizia si avvicini troppo a questa macchina.»

Dougie e il Luna, provvisti di scarpe e vestiti nuovi, si sistemarono nel sedile posteriore, belli puliti e contenti di essere usciti da quella cantina.

Il viaggio di ritorno fu tranquillo. Dougie e il Luna si addormentarono all’istante. Ranger si isolò. Se fossi stata meno stanca avrei potuto approfittare per riflettere sulla mia vita. Ma dovevo concentrarmi sulla strada e sforzarmi di non crollare dal sonno facendo scattare il pilota automatico.

Quando aprii la porta di casa quasi mi aspettavo di trovarmi davanti Benny e Ziggy. Trovai invece una calma totale. Paradisiaca. Mi chiusi la porta alle spalle e stramazzai sul divano.

Mi svegliai tre ore dopo e arrancai in cucina. Lasciai cadere un cracker e un acino d’uva nella gabbietta di Rex e gli chiesi scusa. Non solo ero una stronza che correva dietro a due uomini contemporaneamente, ma ero anche una cattiva madre per il mio criceto.

La segreteria telefonica lampeggiava furiosamente. Gran parte dei messaggi erano di mia madre. Due erano di Morelli. Uno della boutique di Tina che mi diceva che l’abito da sposa era arrivato. E poi c’era un messaggio di Ranger che mi riferiva che Tank aveva lasciato la moto nel parcheggio sotto casa e che dovevo stare attenta. Sophia e Christina erano ancora in libertà.

L’ultimo messaggio era di Vinnie. «Complimenti, sei riuscita a recuperare tua nonna. Mi dicono che hai recuperato anche il Luna e Dougie. Indovina chi manca? Eddie DeChooch. Te lo ricordi? È lui quello che voglio che recuperi. È lui che mi porterà al fallimento se non trascini quel suo culo decrepito in galera. È vecchio, santo Dio. È cieco. Non ci sente. Non riesce a pisciare da solo. Ma tu non sei capace di prenderlo. Dov’è il problema?»

Porca miseria. Eddie DeChooch. Mi ero effettivamente dimenticata di lui. Era in una casa chissà dove. C’era un garage che dava nel seminterrato. E a giudicare dal numero di stanze di cui la nonna aveva parlato doveva essere una casa piuttosto grande. Non se ne trovavano così nel Burg. E neanche nel quartiere di Ronald. Cos’altro avevo? Zero. Non avevo idea di dove poter trovare Eddie DeChooch. A dire la verità non lo volevo neanche trovare.

Erano le quattro di mattina ed ero esausta. Disinserii la suoneria del telefono, mi trascinai in camera, scivolai sotto le coperte e non mi svegliai fino alle due del pomeriggio.

Avevo la cassetta di un film nel videoregistratore e una ciotola di popcorn sulle ginocchia quando il cercapersone suonò.

«Dove sei?» chiese Vinnie. «Ti ho chiamato a casa ma non ha risposto nessuno.»

«Ho disinserito la suoneria del telefono. Ho bisogno di una giornata di ferie.»

«Le tue ferie sono finite. Ho appena intercettato una chiamata dall’antenna radar» disse Vinnie. «Un treno merci in uscita da Philly è andato a sbattere contro una Cadillac bianca al passaggio a livello di Deeter Street. È successo solo pochi minuti fa. Pare che la macchina sia ridotta malissimo, una pacchia per gli sfasciacarrozze. Voglio che tu vada là immediatamente. Con un po’ di fortuna ci sarà rimasto qualcosa del fu Eddie DeChooch che possiamo utilizzare per l’identificazione.»

Guardai l’orologio della cucina. Erano quasi le sette. Ventiquattro ore prima ero a Richmond, mi preparavo per tornare a casa. Era come un brutto sogno. Difficile da credere.

Presi la borsa e le chiavi della moto e mi infilai in bocca quel che rimaneva di un panino. DeChooch non era il mio uomo preferito ma l’idea che fosse stato investito da un treno non mi rendeva felice. Però la mia vita ne avrebbe sicuramente guadagnato. Alzai gli occhi al cielo mentre attraversavo controvoglia l’ingresso. Sarei andata dritta all’inferno per aver pensato una cosa del genere.

Impiegai venti minuti per arrivare a Deeter Street. Gran parte dell’area era bloccata dalle auto della polizia e dai veicoli del pronto soccorso. Parcheggiai a tre isolati di distanza e poi continuai a piedi. Quando mi avvicinai, la polizia stava disponendo il nastro per delimitare l’area sotto inchiesta. Non tanto per preservare il luogo dell’incidente, quanto per tenere alla larga i curiosi. Scrutai tra la folla per vedere se c’era qualcuno che conoscevo, qualcuno che potesse farmi passare. Individuai Carl Costanza insieme a diversi piedipiatti in uniforme. Erano stati convocati sul luogo e ora si trovavano davanti ai curiosi, a guardare il disastro scuotendo la testa. Con loro c’era anche il comandante Joe Juniak.

Mi feci strada a suon di spintoni e arrivai a Carl e Juniak, cercando di non guardare troppo l’auto maciullata perché non mi andava di vedere parti del corpo mozzate e sparse dappertutto.

«Ehi» fece Carl quando mi vide. «Ti stavo aspettando. È una Cadillac bianca. O almeno lo era.»

«È stata identificata?»

«No. Non si riesce a leggere la targa.»

«C’era qualcuno dentro?»

«Chi può dirlo? La macchina è alta una sessantina di centimetri. È volata via e si è accartocciata. I vigili del fuoco la stanno passando agli infrarossi per rilevare eventuale calore corporeo.»