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Iain Banks

Complicità

Per Ellis Sharp

POTERE DI DISSUASIONE INDIPENDENTE

Dopo un’ora e mezzo senti arrivare la macchina. Per tutto quel tempo sei rimasto lì ad aspettare, al buio, seduto sullo sgabello del telefono di fianco alla porta d’ingresso. Ti sei mosso soltanto una volta, dopo circa mezz’ora, per andare in cucina a controllare la cameriera. Era sempre là, con gli occhi spalancati nella penombra. Nell’aria c’era un odore strano, pungente, e lì per lì hai pensato a un gatto, anche se sai bene che lui non ne ha, di gatti. Poi però hai capito che la cameriera si era pisciata addosso. Hai provato un certo disgusto, insieme a un vago senso di colpa.

Quando ti sei avvicinato, lei ha cominciato a mugolare sotto il nastro adesivo nero. Hai controllato il nastro con cui l’avevi assicurata alla sedia e la corda con cui avevi legato la sedia alla cucina Aga ancora calda. Il nastro era esattamente come l’avevi lasciato: o la donna non aveva cercato di liberarsi, oppure l’aveva fatto, ma inutilmente. La corda era ben tesa. Hai lanciato un’occhiata in direzione delle finestre, quindi le hai illuminato le mani con la torcia. Le dita sembravano a posto; era un po’ difficile dirlo, a causa della pelle olivastra tipica dei filippini, ma eri convinto di non averle fermato la circolazione. Hai osservato i suoi piedi minuti, infilati nelle pantofole nere senza tacco. Anche quelli parevano a posto. Una goccia di urina è andata ad aggiungersi alla piccola pozza formatasi sotto la sedia, sul pavimento a piastrelle.

Quando l’hai guardata in faccia, lei tremava di paura. Sai di essere terrificante con il passamontagna nero, ma non ci puoi fare assolutamente nulla. Le hai dato un colpetto sulle spalle, per rassicurarla come meglio potevi. Poi sei tornato allo sgabello di fianco alla porta. Sono giunte tre telefonate; le hai sentite grazie alla segreteria telefonica che rispondeva.

«Sapete che dovete fare», diceva la sua voce gracchiante a chiunque chiamava. Aveva una voce brusca, secca, vagamente snob. «Fatelo dopo il bip.»

«Tobias, vecchio mio… come te la passi? Sono Geoff. Mi chiedevo che programmi hai per sabato prossimo. Ti va un’uscita a quattro nella soleggiata Sunningdale? Fammi uno squillo. Ciao.»

(bip)

«Hmm… Sì, pronto, Sir Toby. Parla nuovamente Mark Bain. Hmm, l’ho chiamata tempo fa e poi negli ultimi due giorni. Io… avrei molto piacere di farle un’intervista, come le ho già detto, Sir Toby, e… Be’, so che di solito lei non concede interviste, ma le assicuro che non ho intenzione di metterla in difficoltà, anzi, apprezzo molto quello che lei ha fatto, e sono davvero interessato a conoscere più a fondo i suoi punti di vista. Ovviamente sta a lei decidere, certo, e io rispetto la sua decisione. Io… proverò a chiamarla ancora in ufficio domani mattina. La ringrazio. La ringrazio molto. Buonasera.»

(bip)

«Tobes, vecchio bastardo, chiamami per quella storia, non sono ancora soddisfatto. E fatti aggiustare quel maledetto cellulare della macchina.»

Quest’ultima telefonata ti ha fatto sorridere. Quella voce dura, coloniale, imperiosa che contrastava con il cameratismo da college d’élite della prima e il tono supplichevole e lamentoso da classe operaia delle Midlands della seconda. La Voce del Padrone. Quello sì era un uomo che ti sarebbe piaciuto conoscere. Nel buio hai alzato lo sguardo verso la parete, ai piedi della scala, coperta da fotografie incorniciate. Ce n’è una di Sir Toby Bissett con la signora Thatcher, entrambi sorridenti. Anche tu hai sorriso.

Poi sei rimasto seduto, respirando piano, riflettendo, mantenendoti calmo. Hai tirato fuori la pistola, infilando un braccio sotto la spessa giacca di tela, togliendola dalla cintura dove l’avevi infilata, lì, aderente alla schiena, tra jeans e camicia. Hai sentito il metallo caldo della Browning persino attraverso i sottili guanti di pelle. Hai estratto e rimesso a posto il caricatore un paio di volte, hai passato il pollice sulla sicura per accertarti che fosse inserita. Poi hai rimesso a posto l’arma.

Ti sei chinato, ti sei tirato su la gamba destra dei jeans e hai estratto il Marttiini dal suo fodero leggermente oliato. La lama sottile del coltello si è rifiutata di brillare fino a quando non l’hai inclinata in modo che riflettesse la lucina rossa e lampeggiante della segreteria telefonica. C’era una leggera macchia d’unto sulla lama. Ci hai alitato sopra e l’hai pulita con un dito, quindi l’hai ispezionata di nuovo. Soddisfatto, hai rimesso il coltello nel fodero e hai tirato giù la gamba dei jeans. E poi hai aspettato finché la Jaguar non si è fermata, fuori, con il motore che ronzava al minimo nella piazza silenziosa, riportandoti al presente.

Ti alzi e guardi attraverso lo spioncino della grande porta di legno. Vedi la piazza avvolta dall’oscurità e distorta dalla lente. Vedi i gradini che salgono dal marciapiede, delimitati su entrambi i lati da una ringhiera. Vedi le macchine parcheggiate lungo la strada, e le sagome scure degli alberi al centro della piazza. La luce arancione dei lampioni si riflette sulla portiera dell’auto nell’istante in cui si spalanca. Scendono un uomo e una donna.

Non è solo. Osservi la donna che si liscia la gonna del tailleur, mentre l’uomo dice qualcosa all’autista e poi chiude la portiera.

«Merda!» imprechi sottovoce. Il cuore ti batte forte.

L’uomo e la donna si dirigono verso la casa. L’uomo tiene in mano una valigetta. È lui. Sir Toby Bissett, l’uomo cui appartiene la voce secca e brusca della segreteria telefonica. Mentre tu continui a sbirciare dallo spioncino, loro salgono sul marciapiede e vanno verso i gradini; lui prende la donna per il gomito, guidandola verso la porta.

«Merda!» esclami di nuovo, e ti giri verso il piccolo corridoio che, di fianco alla scala, porta alla cucina, dove si trova la cameriera, e dove la finestra da cui sei entrato è ancora mezza aperta. La fronte ti prude sotto il passamontagna. Lui lascia andare il gomito della donna, passa la valigetta nell’altra mano e infila la destra nella tasca dei calzoni. Hanno già fatto metà dei gradini. Ti assale il panico; fissi la pesante catena che penzola di fianco alla porta, vicino al grosso chiavistello. Senti il rumore della chiave nella toppa, così vicino da farti trasalire, senti che lui dice qualcosa, senti la risata nervosa della donna e capisci che è troppo tardi. Riacquisti la calma, ti allontani dalla porta fino a trovarti con la schiena contro i cappotti appesi all’attaccapanni; infili una mano nella giacca di tela e impugni il solido sfollagente di pelle con l’anima di piombo.

La porta si apre, verso di te. Senti il motore della Jaguar che fa le fusa mentre l’auto si allontana. La luce dell’ingresso si accende e lui dice: «Eccoci qui».

Poi la porta si chiude e i due si trovano proprio davanti a te. Mentre lui si gira appena per posare la ventiquattrore sul tavolinetto, di fianco alla segreteria telefonica, la ragazza — una bionda abbronzata sui venticinque, con in mano una valigetta — ti vede. Guarda meglio, come se pensasse di essersi sbagliata. Stai sorridendo, sotto il passamontagna, e ti porti un dito alle labbra. La ragazza ha un attimo di esitazione. Il nastro della segreteria telefonica si riawolge con uno squittio. Proprio quando la ragazza sta per aprire bocca, fai un passo avanti: ora sei proprio dietro di lui.

Con lo sfollagente, gli sferri un colpo violento alla nuca, un palmo sopra il collo della giacca. Lui si accascia immediatamente, cadendo contro il muro e poi sul tavolinetto, travolgendo il telefono e la segreteria telefonica. Allora ti volti verso la ragazza.

Lei osserva a bocca aperta l’uomo sul tappeto. Ti fissa, e pensi che stia per mettersi a urlare. T’irrigidisci, pronto a colpirla con un pugno. Invece la ragazza molla la valigetta e alza le mani tremanti davanti a sé, lanciando una rapida occhiata all’uomo che giace immobile sul pavimento. Le trema anche la mascella.