Gli rivolgo un’occhiata mesta. Tutti e due ci voltiamo di nuovo a guardare il sottomarino.
Si odono deboli, distanti esclamazioni di trionfo quando, finalmente, uno dei gommoni degli antinuclearisti riesce a forzare il cordone delle imbarcazioni militari, sfugge al controllo e si lancia a tutta velocità contro la poppa tonda e nera del Trident, riuscendo a salirgli appena sulla coda — pare un moscerino che tenta d’ingropparsi un elefante — prima di essere allontanato. Una troupe televisiva cattura il momento. Sorrido, compiaciuto per i dimostranti. Dopo un po’ ci sfila davanti la grossa massa grigia della Orkney, sempre al seguito del gigantesco sottomarino.
«Orkney», mormora Garnet con aria pensosa. «Orkney…»
Mi sembra quasi di sentire il suo cervello che macina nel tentativo di scoprire un collegamento con il pezzo forte delle notizie dall’interno dell’indomani, quando verrà pubblicato il rapporto sul finto scoop del caso Orkney, riguardante le molestie sessuali sui minori. Conoscendo Garnet, c’è da aspettarsi un qualche commento sui marinai.
Me ne sto zitto, per non incoraggiarlo.
Getta via il mozzicone di sigaretta. Forse equivocando il suo gesto, qualcuno a poppa della Orkney ci saluta con la mano. Iain risponde con cordialità al saluto. «Bravi, continuate così, ragazzi!» grida, ma non abbastanza forte perché qualcuno a bordo della nave possa sentirlo. Sembra compiaciuto di sé.
«Sei davvero uno spasso, Iain», gli faccio, avvicinandomi al bordo del container. «Ci facciamo una birra, dopo?» Salto giù sul barile e da lì a terra.
«Te ne vai già?» chiede Iain. E aggiunge: «No, devo intervistare il comandante di Faslane e poi devo tornare in ufficio».
«Anch’io devo rientrare alla base», gli dico. «Ci vediamo là.» Mi volto, dirigendomi alla macchina.
«Non mi dare una mano a scendere, eh, bastardo? Sempre lo stesso edimburghese bastardo!» mi urla dietro.
Alzo una mano e continuo per la mia strada senza voltarmi. «Hai ragione!»
Un minuto dopo, mentre esco dal villaggio, diretto verso l’estremità del lago e la base navale che si trova proprio lì, sorpasso il sottomarino. Nella splendente luce del sole, si rivela di una bellezza singolare e minacciosa, una macchia nera e scintillante nel panorama di terra e acqua. Scuoto la testa. Dodici miliardi di sterline per far fuori alcuni silos probabilmente già vuoti e incenerire qualche decina di milioni di russi, uomini, donne e bambini… se non che ormai non sono più nostri nemici e così quell’affare che già prima era osceno — nonché totalmente, deliberatamente inutile — diventa adesso senza scopo. Uno spreco ancora maggiore.
Mi fermo su un tratto di strada sopraelevato, poco dopo Garelochhead, e rimango a osservare il sottomarino che si sta avvicinando al bacino. Ci sono altre macchine parcheggiate e gruppi di persone che lo stanno osservando; probabilmente cercano di trovare una giustificazione ai soldi che hanno tirato fuori come contribuenti.
Accendo una sigaretta, e abbasso il finestrino per poter soffiare fuori tutto quel fumo dannoso alla salute. Mi fanno male gli occhi per la stanchezza. Sono rimasto alzato quasi tutta la notte a lavorare a un articolo e a giocare a Despot al computer. Mi guardo intorno per accertarmi che nessuno stia osservando, infilo una mano sotto la giacca North Cape e tiro fuori un sacchettino di anfe. M’inumidisco un dito, lo intingo nella polvere bianca, poi lo succhio. Sento la punta della lingua che diventa insensibile e sorrido, sospirando. Metto via il sacchettino e continuo a fumare.
…A meno che, ovviamente, non si prenda in considerazione l’utilizzo del sistema Trident in termini di economia geopolitica, come parte della vasta corsa agli armamenti del mondo occidentale, la stessa corsa che aveva fatto fallire le casse comuniste, distruggendo il sistema sovietico non più in grado di sostenere la competizione (e che aveva fatto fallire anche gli Stati Uniti, trasformandoli dai maggiori creditori del mondo nella nazione più indebitata semplicemente nel corso di due mandati presidenziali; nel frattempo, però, erano già stati pagati un sacco d’interessi e di quel debito avrebbero dovuto preoccuparsi le generazioni future: quindi non contava).
E così, mentre il comunismo crollava e la minaccia di un olocausto totale si dissolveva, lasciandoci alle prese con tutti gli altri problemi, mentre si aprivano tutti quegli interessanti e succulenti mercati dell’Est, con i vecchi odi razziali che venivano soffocati, e i compagni che ribollivano e si agitavano fino a scoppiare… forse questo enorme lumacone, questo cazzo gigantesco che poteva fottere città, nazioni, l’intero pianeta, questo cazzo che ora s’infilava tra le cosce del lago poteva ancora servire a qualcosa.
Diamine, ma certo!
Metto in moto la macchina, caricato, sveglio, nuovamente motivato, sento che vado al massimo, spumeggiante di entusiasmo e di voglia di fare, ribollente del dolce nettare della determinazione, pronto a scendere in quella base missilistica nucleare laggiù e a fare il servizio, come direbbe il benedetto sant’Hunter.
Oltrepasso il bivacco dei dimostranti che agitano cartelli, oltrepasso i recinti di fitta rete metallica sormontati da rotoli di filo spinato, oltrepasso i cancelli anticarro (dopo aver mostrato le mie credenziali) e vengo indirizzato verso l’edificio dove si terrà la conferenza stampa. Mentre aspetto che arrivino tutti gli altri, batto parte dell’articolo sul mio laptop. Gli ufficiali che rispondono alle domande hanno un aspetto atletico e riposato, sembrano tipi come si deve, gentili e quasi dispiaciuti per il disturbo, ma anche incrollabilmente convinti di stare facendo qualcosa che è ancora importante e necessario.
Più tardi, mentre sto lasciando la base, i dimostranti che bivaccano all’esterno — la maggior parte vestiti con strati e strati di golf sudici e informi e vecchi giubbotti mimetici, quasi tutti con pettinature alla rastafari oppure con la testa rasata — mi fanno esattamente la stessa impressione.
Me ne torno a Edimburgo ascoltando Gold Mother, mentre l’effetto degli eccitanti si esaurisce in fretta, come un motore che perde potenza sui saliscendi della M8.
La redazione del Caledonian è caotica come al solito, affollata di scrivanie, pareti mobili, scaffali, computer, piante, pile di giornali, tabulati, fotografie e schedari. Mi faccio strada attraverso il labirinto, salutando gli scribacchini miei complici.
«Cameron», mi saluta Frank Soare, alzando lo sguardo dal suo terminale. Frank ha cinquant’anni, una nuvola di capelli bianchi e una carnagione che riesce a essere moderatamente rubizza e al contempo morbida come quella di un bambino. Ha una parlata cantilenante che, di solito dopo pranzo, diventa un po’ blesa. Ogni volta che mi vede, gli piace ricordarmi come mi chiamo. Aiuta, in certe mattine.
«Frank», rispondo, sedendomi alla scrivania e scorrendo i fogliettini gialli che ornano il lato del monitor.
Frank fa capolino dall’altra parte del computer, dandomi la prova inequivocabile del fatto che crede ancora nell’eleganza delle camicie colorate con il colletto bianco. «Allora, raccontami un po’ dell’ultimo gioiello del vitale e assolutamente indipendente potere di dissuasione britannico.»
«Pare che funzioni. Galleggia», rispondo, accendendo il computer.
La biro di Frank batte delicatamente sul primo dei foglietti gialli. «Ha telefonato di nuovo la tua talpa», m’informa. «Un’altra corsa inutile?»
Do un’occhiata all’appunto. Il signor Archer richiamerà tra un’ora, dice. Guardo l’orologio: ci siamo quasi.
«Probabilmente», convengo. Controllo che il mio Pearlcorder abbia una cassetta vergine. Il registratore abita di fianco al telefono, pronto a registrare tutte le telefonate potenzialmente interessanti.