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Io ho ’sta mania di volermi ricordare tutto da solo, ma la mattina seguente, in ufficio, mi collegai a Profile e lasciai fare a lui il lavoro pesante. Profile non è altro che un’impressionante, gigantesca banca dati che probabilmente conosce persino il colore dei calzini del tuo bis-bisnonno materno e sa quanti cucchiaini di zucchero sua moglie metteva nel tè; contiene praticamente tutto quanto è apparso sui giornali (americani, europei e asiatici) negli ultimi dieci anni, più un intero universo d’informazioni provenienti da megamiliardi di altre fonti.

I nomi non furono un problema. I cinque stoccafissi erano morti tutti tra i cinque e i sei anni prima e avevano tutti a che fare con il nucleare o con i servizi di sicurezza. Tutte le morti sembravano suicidi, ma tutte avrebbero potuto benissimo essere omicidi; all’epoca i giornali avevano avanzato l’ipotesi che ci fosse sotto qualcosa di poco chiaro, ma poi la cosa era finita lì. Fino a oggi, le uniche cose che il signor Archer mi aveva rivelato, e che io non avrei potuto trovare negli archivi del giornale, erano alcuni dettagli sulla dinamica esatta delle morti e, proprio quella sera, il nome del progetto cui tutti avevano lavorato: Ares.

Me ne resto seduto in macchina per un po’, lavorando distrattamente all’articolo sulle distillerie di whisky che ho in cantiere già da un po’, riflettendo su chi o su che cosa possa essere Ares. Qualcuno entra nella cabina per fare una telefonata. Mi diverto con qualche patetico giochino da principianti, desiderando tanto avere un computer decente, a colori e con velocità, RAM e hard disk sufficienti per far girare Despot. Preparo uno spinello e me lo fumo ascoltando un po’ di radio; poi passo al buon vecchio nastro di k.d. lang, ma è troppo soporifero e allora ritorno alla radio, però non la sopporto e così frugo nel vano portaoggetti finché non trovo Trompe le Monde dei Pixies: questo mi tiene sveglio più dell’anfe. Il nastro è un po’ rovinato perché l’ho sentito un mucchio di volte e così la musica va e viene, ma è forte lo stesso.

È una bella giornata estiva e sto correndo per i boschi a Strathspeld; ho tredici anni e, mentre corro, mi vedo dall’esterno, come se mi stessi osservando su uno schermo. Sono stato qui un sacco di volte e so come uscire, come scappare da questo posto. Sto per riuscirci quando sento suonare un campanello.

Mi sveglio e il telefono sta squillando. Mi ci vuole un secondo per rendermi conto che mi sono addormentato, e un altro secondo per ricordarmi dove sono. Schizzo fuori dalla macchina e m’infilo nella cabina telefonica, tagliando la strada a un vecchio che sta portando fuori il cane.

«Chi parla?» dice la voce.

«Sono io, Cameron Colley, signor Archer. Senta…»

«C’è un’altra persona che sa di questi morti, signor Colley: è l’intermediario. Non so ancora quale sia il suo vero nome. Non appena lo scopro, glielo comunicherò.»

«Come?»

«Il suo nome in codice è Jemmel», dice la voce alla Stephen Hawking, e poi ripete il nome lettera per lettera.

«Ho capito, signor Archer, ma chi…?»

«Addio, signor Colley. Stia bene.»

«Signor…!»

Il signor Archer ha già riattaccato.

«Merda!» esclamo. E ho pure dimenticato di registrare la telefonata.

Resto seduto in macchina per un po’ e inserisco il nome Jemmel nel mio Tosh. Non mi dice nulla.

Torno in albergo per fare pipì e bere un ultimo drink, un altro doppio: servirà per farmi compagnia lungo la strada, giacché il primo, molto probabilmente, è già stato smaltito. Non mangio da questa mattina, però non ho fame. Mi sforzo di mangiare qualche nocciolina tostata e scolo una mezza pinta di Murphy per mandarle giù e per il ferro. (Prima bevevo Guinness, ma da quando quei bastardi hanno contato una balla sul fatto di trasferire il loro quartier generale in Scozia, ho deciso di boicottarli.)

In macchina, mi faccio un po’ di polverina (giusto per amore della guida sicura: mi terrà sveglio) e poi, una volta partito, fumo uno spinello (per bilanciare il tutto). Su Radio Scotland a mezzanotte c’è un programma che a volte, verso la fine, dà un’anticipazione sui titoli dei quotidiani del giorno. Lo ascolto, e sento che parlano del nostro giornale, ma noi apriamo con le manovre dei Tories per la corsa al voto su Maastricht. Provo una certa delusione, poi però dicono che la foto in prima pagina ritrae il Vanguard mentre arriva a Faslane e allora capisco che c’è anche il mio articolo, e che, con un po’ di fortuna, sarà vicino alla foto, in prima pagina, e non sepolto all’interno come al solito. Avverto un piccolo brivido di ebbrezza da notizia, mi faccio di ero(giornal)ismo.

Questo è uno sballo tipico della nostra professione: gratificazione quasi istantanea da stampa. Immagino che per i comici di cabaret, per i musicisti nei concerti e per gli attori di teatro la gratificazione sia analoga e persino più veloce, però, se si lavora nel mondo della carta stampata e si crede alla dubbia autorità del nero su bianco, allora l’intera faccenda si concentra lì. Lo sballo migliore, poi, è quando ci si trova proprio in prima pagina, ma anche un articolo in posizione di rilievo su una pagina dispari ti dà già un’ebbrezza piuttosto sublime, mentre un misero pezzo in fondo a una pagina pari genera un effetto alquanto deprimente.

Mi faccio un altro spinello per celebrare, ma mi addormenta un po’ e ci vogliono un’ultima microleccata di anfe e un’altra dose di Trompe le Monde per rimettere a posto le cose.

FILTRAGGIO A FREDDO

Sono molto tentato di passare in sede a prendere una copia del giornale fresca di stampa, appena uscita dalle rotative, che a quest’ora stanno di certo andando a pieno ritmo, con un gran frastuono che fa tremare l’intero edificio. L’odore d’inchiostro e la sensazione vagamente oleosa al tatto della carta hanno sempre avuto il potere di accrescere enormemente la mia ebbrezza da stampa; inoltre mi piacerebbe controllare l’articolo sul Vanguard per scoprire quali violenze i redattori sono riusciti a infliggergli. Tuttavia, mentre percorro Nicolson Street, l’idea di sottodirettori che tagliano un articolo su un sottomarino mi sembra d’un tratto così esilarante che vengo preso da una ridarella incontrollabile, al punto che mi vengono le lacrime agli occhi e mi metto a tirare su con il naso. Decido che sono troppo fatto per riuscire a mantenere una faccia seria davanti ai tipografi, e così mi dirigo verso casa.

Arrivo a Cheyne Street verso l’una e mi tocca il solito tour forzato di Stockbridge by night alla ricerca di un parcheggio; finalmente ne trovo uno a un minuto dal mio appartamento. Sono stanco, ma non ho sonno. Allora mi faccio lo spinello della buonanotte e due dita di Tesco.

Nelle due ore seguenti ascolto distrattamente la radio e guardo la televisione con la coda dell’occhio mentre rattoppo il pezzo sul whisky sul mio PC. Poi m’impongo di non mettermi a giocare a Despot, perché so che mi farei prendere la mano e finirei con lo stare alzato fino all’alba per poi dormire tutto il giorno, senza riuscire ad alzarmi in tempo per l’appuntamento del giorno dopo (a mezzogiorno devo incontrare il direttore di una distilleria), e così ripiego su Xerium: un gioco da dilettanti, non roba seria. Un gioco per rilassarsi, non per caricarsi.