«Be’, fondamentalmente, solo i fatti», gli sto dicendo, con un sorriso. «Che negli anni ’20 gli yankee si lamentavano perché il whisky e il brandy diventavano torbidi quando ci mettevano il ghiaccio e quindi chiesero alle distillerie di trovare una soluzione a quello che loro consideravano un problema. I francesi, essendo francesi, dissero loro quello che dovevano farci con i cubetti di ghiaccio, mentre gli scozzesi, essendo britannici, assicurarono che avrebbero fatto del loro meglio…»
Mentre parlo, l’espressione da cocker abbacchiato del signor Baine diventa ancora più triste. So bene che non avrei dovuto farmi quella microleccata di polverina poco fa, durante la visita, ma non sono riuscito a resistere; c’era qualcosa d’irresistibilmente affascinante, una sorta d’intima soddisfazione, nella certezza di restare impunito, nell’infilarmi il dito in bocca, poi in tasca e nuovamente in bocca, annuendo mentre il signor Baine parlava e io assumevo un’espressione sempre più interessata e la lingua diventava insensibile e il gusto di medicinale diventava più forte in gola. Così, mentre quella droga illegale, che genera un’assuefazione completa ed esaltante, faceva effetto, noi continuavamo il nostro giro per questa fabbrica di droga perfettamente legale finanziata dal governo.
Sto farfugliando, ma sto d’un bene…
«Però, signor Colley…»
«E così i distillatori hanno introdotto il filtraggio a freddo: si abbassa la temperatura del whisky fino a che gli oli che causano la torbidità non si separano, poi si passa il tutto attraverso filtri in materiali a base di asbesto per rimuovere l’olio; solo che il procedimento porta via anche un sacco di sapore — e questo non si può rimettere — e di colore, ma questo invece riuscite a rimetterlo usando il caramello. Dico bene?»
Ora il signor Baine ha un’aria da cane bastonato. «Ah, be’, a grandi linee», dice, schiarendosi la gola e lanciando un’occhiata alla distesa di botti allineate in ordine perfetto e che sembrano scomparire nel buio. «Ma… questo intende essere un… hmm… come lo chiamate… un articolo di denuncia, signor Colley? Io credevo che lei volesse soltanto…»
«Credeva che volessi fare l’ennesimo articolo sul nostro grande, magnifico Paese e su quanto siamo fortunati a saper produrre questa bevanda rinomata in tutto il mondo, bevanda che ci frutta un sacco di dollari, che non è dannosa alla salute se usata con moderazione ed è buonissima?»
«Be’… signor Colley… sta a lei decidere cosa scrivere», dice il signor Baine (io sto sfoggiando un gran sorriso). «Ma, vede, temo che lei potrebbe indurre in errore le persone insistendo su certi particolari, tipo l’asbesto. La gente potrebbe pensare che ci sia dell’asbesto nel prodotto.»
Guardo il signor Baine. Prodotto? Ha davvero detto prodotto?
«Non intendo assolutamente insinuare una cosa simile, signor Baine. Questo sarà un articolo rigoroso, basato sui fatti.»
«Certo, certo, tuttavia certi fatti, se isolati dal contesto, possono indurre in errore.»
«Uh, uh.»
«Vede, non sono sicuro che il tono…»
«Signor Baine, pensavo che a lei il tono dell’articolo piacesse. È per questo che oggi mi trovo qui; mi avevano detto che lei ha intenzione di produrre un vero whisky, senza filtraggio a freddo né coloranti. Un prodotto di prima qualità, in cui la particolare torbidità e la presenza di oli residui assumono il ruolo di argomenti di vendita, addirittura di punti di forza nella pubblicità…»
«Be’», mormora il signor Baine, visibilmente a disagio, «quelli del marketing ci stanno ancora lavorando…»
«Su, signor Baine, tutti e due sappiamo benissimo che la domanda c’è; la Scotch Malt Whisky Society fa affari d’oro, il negozio di Caddenhead sul Royal Mile…»
«Mah, non è così semplice», ribatte il signor Baine, sempre più a disagio. «Senta, signor Colley, potremmo parlarne… insomma… parlarne senza che lei lo scriva?»
«Cioè in via ufficiosa?»
«Sì, in via ufficiosa.»
«D’accordo.»
Il signor Baine intreccia le mani sotto il ventre fasciato dall’abito scuro e annuisce con aria compunta. «Senta, Cameron», dice, abbassando la voce, «sarò franco con lei: abbiamo effettivamente pensato d’immettere sul mercato questo nuovo whisky di qualità superiore di cui lei ha parlato, e di utilizzare l’assenza del filtraggio a freddo come argomento di vendita, ma… Vede, Cameron, anche ammesso che funzionasse, non potremmo vivere soltanto di quello, almeno non nell’immediato futuro. Abbiamo altri fattori da tenere in considerazione. Probabilmente dovremmo continuare a vendere la grande maggioranza della nostra produzione come whisky per miscele: è quello il nostro prodotto, la nostra vita, e quindi siamo costretti a dipendere dal favore delle ditte cui lo vendiamo. Ditte molto, molto più grosse di noi.»
«Sta dicendo che gli altri produttori vi hanno chiesto di non dar loro fastidio.»
«Oh, no, no!» Il signor Baine si altera, teme di essere stato frainteso. «Però lei deve capire che gran parte del successo del whisky dipende dal suo fascino, dall’immagine che il consumatore ha di esso in quanto prodotto unico, di alto valore. E quasi un mito, Cameron. È l’uisgebeatha, l’’acqua della vita’, come lo chiamano… È un’immagine assai incisiva, molto importante per le esportazioni scozzesi e per l’economia nazionale. Se noi — che, francamente, siamo sul mercato da pochissimo tempo — ci comportassimo in modo da danneggiare tale immagine…»
«…per esempio insinuando nella gente l’idea che tutti gli altri whisky sul mercato sono filtrati a freddo e colorati con il caramello…»
«Be’, sì…»
«…rompereste le uova nel paniere agli altri produttori», completo. «E così vi hanno chiesto di lasciar perdere il nuovo marchio oppure vi ritroverete a corto di ordini per il vostro whisky per miscele e finireste per fallire.»
«No, no, no», ripete il signor Baine, ma lì, nella fredda oscurità del magazzino fragrante di alcool, circondati da tante botti da far galleggiare persino un Trident, capisco che la vera risposta, anche in via ufficiosa, è: «Sì, sì, sì», e penso: Ma certo! Una cospirazione: un insabbiamento, una forte pressione, un ricatto corporativo nei confronti di una piccola azienda. Potrebbe uscirci un articolo ancora migliore!
Entri dalla porta sul retro servendoti di un palanchino; la porta e la serratura sono massicce, ma con gli anni l’intelaiatura è marcita sotto strati e strati di vernice. Non appena sei dentro, tiri fuori dallo zaino la maschera da Elvis Presley e la infili, poi prendi i guanti da chirurgo dalla tasca e metti pure quelli. La casa è ancora tiepida per il calore del pomeriggio: è esposta a sud e quindi prende un sacco di sole, anche perché gode di una vista indisturbata del percorso del campo da golf verso l’estuario.
Non pensi che ci sia qualcuno, ma non ne sei sicuro. Non hai avuto il tempo di sorvegliare la casa per tutto il giorno. Dà comunque l’impressione di essere vuota. Scivoli da una stanza all’altra, sudando sotto il lattice scivoloso della maschera. Il sole del tardo pomeriggio ha acceso di rosa le impalpabili nuvole alte sul mare e questa luce riempie ogni stanza di ombre rosate.
La scala e molte delle assi del pavimento scricchiolano. Le stanze sono pulite, però i mobili paiono vecchi e scompagnati: sembrano scarti. Arrivato nella camera da letto padronale, ti convinci che in casa non c’è proprio nessuno.
Non sei molto soddisfatto del letto: in realtà è un divano. Lo ispezioni alla luce che si fa sempre più rossa, poi sollevi il materasso e lo appoggi contro il muro. Non sei ancora soddisfatto. Ispezioni l’altra camera da letto, anch’essa affacciata sul campo da golf e sul mare; dall’odore che vi ristagna e dalla leggera sensazione di umido che la pervade, capisci che non ci dorme nessuno. Il letto qui va meglio: ha la struttura di ferro. Lo disfi e cominci a strappare le lenzuola, facendone lunghe strisce.