«Isham… hai fatto bene. Non pensarla mai diversamente, figliolo. Hai fatto bene e sono molto fiero di te. Ora tua madre e Israfel possono riposare in pace, e anche milioni di altri morti. So che io dormirò più sereno, questa notte, di quanto abbia dormito in questi ultimi diciotto anni.
È vero papà, è vero. Mi rilassai. — D’accordo. Credo che abbia ragione tu. Volevo soltanto che me lo dicesse qualcun altro, oltre a me stesso. Volevo che me lo dicessi tu. — Mio padre sorrise, annuì e tornò a sedersi. Lo lasciai lì: un vecchio perduto nei suoi pensieri.
Andai in bagno e chiusi la porta, rallegrandomi che gli impianti igienici fossero stati una delle prime cose realizzate a Fresh Start. Passai qualche minuto raccogliendo varie cose che avevo portato da New York e rimuovendo la parte posteriore della vasca settica dietro la tazza della toeletta. Poi feci scorrere l’acqua.
Infilai la mano nel serbatoio, afferrai il galleggiante e lo torsi in modo che il serbatoio non si riempisse d’acqua. Tenendolo bloccato, presi la grossa bottiglia di cloro che avevo portato dalla città. Era una reliquia insostituibile della Civiltà: non aveva prezzo… ed era assolutamente inutile per l’uomo moderno. Misi i tamponi nasali e riempii il serbatoio di cloro, rimisi a posto il coperchio di porcellana, senza far rumore, ma lasciandolo un po’ sollevato. Mi chinai di nuovo e presi una grossa tanica (anche quella era una preziosa, inutile antichità) di liquido pulente per vasche. L’etichetta diceva «Vanish», svanisci, e mi auguravo che fosse profetica. La versai completamente nella tazza della toeletta.
Al diavolo la spesa, pensai, e ridacchiai come un pazzo.
Poi riabbassai l’asse, nascosi il cloro e la tanica e me ne andai, fischiettando in sordina tra i denti.
Mi sentivo benone, meglio di quanto mi fossi mai sentito da quando avevo lasciato New York. Mi avviai nel buio pesto fino al Iago, e sedetti fra i pini sulla spiaggia, lanciando sassi sull’acqua e cercando di farli rimbalzare. Sembrava che non ci riuscissi. Ero abituato all’effetto equilibratore del braccio sinistro. Massaggiai malinconicamente il moncherino, mi sdraiai e riflettei per un po’. Avevo mentito a mio padre… non era finita. Ma sarebbe finita presto.
Giusto o ingiusto, pensai togliendomi i tamponi e accendendo uno spinello, ma di certo può essere necessario.
La luce della luna s’infrangeva sui rami, sopra la mia testa, e cadeva a terra in schegge. Aspirai profondamente l’oscurità fresca, assaporai l’odore della marijuana e del bosco e degli animali lontani e i buoni aromi vivi di un’ecologia bilanciata, ascoltai il ronzio lontano dei generatori eolici che immagazzinavano energia per il lavoro ancora da compiere. E pensai a un uomo impazzito per il sogno di un mondo migliore e più semplice; un uomo che, il Cielo l’aiutasse, era animato da buone intenzioni. E pensai alla registrazione che intendevo lasciare per spiegare al Consiglio e al mondo ciò che avevo fatto.
VI
Trascrizione della registrazione su nastro effettuata da Isham Stone (Archivi Giudiziari di Fresh Start).
Tanto vale che mi rivolga a te, Collaci… scommetto la mia pistola anti-Musky che sarai il primo a notare la registrazione e ad ascoltarla. Spero che ascolterai attentamente; ma forse sarebbe chiedere troppo, la prima volta. Continua ad ascoltarla.
La storia risale a un paio di mesi fa, quando ero a New York. Ormai avrai senza dubbio trovato il diario con il resoconto della mia giornata in città, e avrai notato che manca il finale. Bene, la storia ha due finali. C’è quello che ho raccontato a mio padre e c’è quello che stai per ascoltare. Quello vero.
Andai alla deriva nella tenebra per mille anni, impotente come un Musky in un uragano, vorticando nell’interno della mia testa. I ricordi mi passavano accanto come dirigibili, e io cercavo di afferrarli, ma quelli tangibili mi scottavano le dita. Vagamente, percepivo la luce del giorno in lontananza, da entrambe le parti; decisi che quelli dovevano essere i miei orecchi e cercai di afferrare quello di destra, che sembrava un po’ più vicino. Mi ustionai il braccio virando accanto a un trauma adolescenziale, ma sortì l’effetto voluto… veleggiai nella luce del giorno e atterrai a faccia in giù con un tonfo tremendo. Pensai a rialzarmi, ma non riuscivo a ricordare se avevo portato con me le gambe, e quelle non parlavano. Il braccio mi doleva ancora più della faccia, e qualcosa puzzava.
— Aiuto! — invocai con un filo di voce, e due mani mi presero per le ascelle. Mi sollevai nell’aria e chiusi gli occhi di nuovo, assalito da un’improvvisa ondata di vertigine. Quando passò, mi accorsi che ero riverso sul letto dal quale ero appena riuscito a cadere. Un dolore sordo ma insistente al petto mi consigliava di respirare adagio.
Che mi venga un colpo, pensai confusamente. Collaci deve avermi seguito senza dirmelo, per darmi una mano. Quel vecchio furbacchione. Avrei dovuto pensare a cercargli qualche stuzzicadenti.
— Ehi, Maestro — gracchiai, e aprii gli occhi.
Wendell Morgan Carlson si chinò su di me con aria preoccupata.
Stranamente, non cercai di alzare le mani per stritolargli la laringe. Chiusi gli occhi, mi rilassai, contai lentamente fino a dieci, scrollai la testa per schiarirmela e riaprii gli occhi. Carlson era ancora lì.
Poi tentai di alzare le mani e di stritolargli la laringe. Non ci riuscii, naturalmente, non tanto perché ero troppo debole per arrivarci, quanto perché all’ordine rispose un braccio solo. La mente mi diceva che il braccio sinistro era sollevato verso la gola di Carlson, e protestava furiosamente, anche; ma il braccio non lo vedevo. Abbassai gli occhi e vidi il moncherino scrupolosamente fasciato, e lo alzai, distrattamente, per vedere se sotto c’era il mio braccio, ma non c’era. Allora capii che il moncherino era tutto ciò che restava e tac!… ritornai nella tenebra amica dentro la mia testa, a rimbalzare di nuovo tra i ricordi che scottavano.
La seconda volta che rinvenni era completamente diverso. Un momento prima stavo lottando con un fantasma e un momento dopo scattò un interruttore e mi ritrovai lucido. Cerca di guadagnare tempo, fu il mio primo pensiero. La situazione tattica l’impone. Aprii gli occhi.
Carlson non era in vista. E neppure a portata d’olfatto… ma i tamponi nasali erano di nuovo al loro posto.
Girai gli occhi sulla stanza. Era una stanza. Quattro pareti, un soffitto, un pavimento, il letto dove stavo io e vari mobili orrendi. Non c’era un’arma visibile e non c’era niente che potessi usare come arma. Un’occhiata dalla finestra confermò la mia impressione: ero a Butler Hall, apparentemente al piano terreno, non lontano dall’ingresso principale. La grande cupola della Lowe Library era quasi al centro della finestra, e la grande scalinata di pietra era nascosta in parte dai cespugli incolti davanti a Butler Hall. Le ombre dicevano che era mattina, verso mezzogiorno. Chiusi gli occhi, con decisione.
Poi studiai me stesso. La testa mi faceva parecchio male, ma questo era facilmente sommerso dal dolore al petto. Indiscutibilmente qualche costola era fratturata, e sembrava che i tronconi non collimassero. Ma a quanto mi pareva di capire il polmone era intatto… non faceva più male quando inspiravo. O almeno, non molto di più. Le gambe si mossero tutte e due quando glielo ordinai, con un minimo di proteste, e le caviglie sembravano in ordine. Era inutile che riaprissi gli occhi, vero?
Per un momento smisi di fare l’inventario. In fondo al mio cranio, una lucertola unghiuta esigeva di essere liberata, e per qualche minuto m’impegnai a rafforzare i muri della sua prigione. Quando non sentii più i suoi urli, riaprii gli occhi ed esaminai spassionatamente il moncherino del mio braccio sinistro.