Sembrava un lavoro pulito, ben fatto. La posizione del taglio indicava che era una procedura chirurgica e non una manifestazione di ostilità vendicativa, come avevo pensato in un primo istante… sembrava che la cancrena fosse stata sconfitta. Oh, magnifico, pensai. Devo uccidere un pazzo benevolo. Poi mi vergognai. Mia madre, come la ricordavo io, era stata benevola; e Israfel non aveva avuto la possibilità di diventarlo. Tutti sapevano che le intenzioni di Carlson erano state buone. Potevo ucciderlo con una mano sola.
Mi chiesi dov’era.
Una mosca ronzò lugubremente intorno alla stanza. Le siepi all’esterno frusciavano, e da qualche parte cantavano gli uccelli, lanciando trilli che scintillavano nell’aria mattutina. Era una bella giornata, abbastanza calda per essere piacevole, senza nubi in vista, con una brezza, e la parte migliore del giorno che doveva ancora venire. Mi metteva addosso la voglia di scendere al ruscello a stanare le rane con un bastoncino o a cogliere le fragole per Mr. Fletcher, con le mani macchiate di rosso e la pancia piena di frutti dolci che l’indomani mattina mi avrebbero dato la diarrea. Era una bellissima giornata per un assassino.
Ci pensai, considerai le possibilità. Carlson era… in qualche posto. Io ero più debole di un Musky in una pentola a pressione e il mio armamento naturale era diminuito del venticinque per cento. Ero in un territorio sconosciuto e gli unici oggetti nella stanza abbastanza grossi per servire come armi erano così pesanti che non sarei riuscito a sollevarli. Rompere la finestra e procurarmi un coltello? Come l’avrei impugnato? Le mie scarpe di tela erano dall’altra parte della stanza, sotto una sedia dove stava il resto dei miei indumenti, e mi chiesi se potevo nascondermi dietro la porta in attesa che Carlson entrasse, e poi strangolarlo con i lacci.
La smisi subito. Come avrei fatto a strangolare Carlson con una mano sola?
Poi per un po’ vidi girare tutto, mentre incominciavo a capire fino a che punto la mia vita era stata cambiata dalla perdita del braccio. Non userai mai più una sega, o un badile, o un guantone da baseball o…
Seppellii di nuovo la lucertola e mi sforzai di concentrarmi. Forse avrei potuto fare un nodo scorsoio con i lacci delle scarpe. Con una mano sola? Ci sarei riuscito? Forse, se avessi fissato a qualcosa l’estremità di un laccio e poi gli avessi avvolto l’altra intorno al collo e avessi tirato? Non era necessario che fossi molto forte, potevo fare in modo che fosse il mio peso a ucciderlo…
Proprio in quell’istante, credo, decisi di non morire, decisi di continuare a vivere con un braccio solo; e il problema non si pose più. Ero troppo indaffarato per disperarmi, e quando potei prendermi di nuovo quel lusso, molto più tardi, l’impulso era passato.
Tutti i mei piani incerti, per quanto avessero un effetto terapeutico, erano imperniati su un unico interrogativo importante: potevo reggermi in piedi? Sembrava indispensabile accertarlo.
Fino a quel momento avevo mosso soltanto gli occhi… cercai di sollevarmi a sedere. Non era più difficile che lanciare in aria qualche bulldozer, e io riuscii a ridurre l’urlo ad un esplosivo «Uh, huh!». Mi sembrava di avere le costole di vetro, vetro rotto che lacerava il rivestimento muscolare e il tessuto pleurico. Il sudore m’inondò la fronte, e mi sforzai di dominare la vertigine e la nausea, ordinai furiosamente al mio corpo di obbedirmi, come un cavaliere disperato sprona un cavallo moribondo. Puntellai il braccio dietro di me e mi appoggiai, vacillando ma tenendomi ritto, e attesi che la stanza smettesse di roteare. Passai il tempo contando fino a mille in frazioni di un ottavo. Finalmente la stanza si fermò, lasciandomi la sensazione che una brezza lievissima avrebbe potuto ricominciare a farla girare.
Bene. Muoviamoci, Stone. Buttai una gamba giù dal letto e notai con sollievo che il piede toccava il pavimento. Così sarebbe stato più facile tenermi in equilibrio sull’orlo, prima di tentare di alzarmi, Prima di perdermi di coraggio, buttai giù anche l’altra gamba, mi diedi una spinta con il braccio e mi ritrovai seduto, eretto. Il pavimento era a una distanza incredibile… davvero ero caduto da quell’altezza ed ero sopravvissuto? Forse avrei dovuto attendere che Carlson tornasse, chiedergli di avvicinarsi e piantargli i denti nella vena iugulare.
Mi alzai.
Un crescendo straziante nella sinfonia dei dolori, con le costole che dirigevano ancora la melodia. Bloccai le ginocchia e vacillai, gemendo pietosamente come un gattino prigioniero su un cornicione. Non potevo avvicinarmi al silenzio più di così, e tutto considerato era già molto. La mia spalla destra era sensibilmente più pesante di quella sinistra, e mi sbilanciava. Il pavimento, che aveva continuato ad allontanarsi, adesso era ad una tale distanza che smisi di preoccuparmene… sicuramente il Paracadute si sarebbe aperto in tempo.
Bene, allora perché non provare a muovere un passo o due?
La mia gamba sinistra era leggera come un palloncino pieno d’elio… appena staccata dal pavimento cercò di puntare verso il soffitto, e ci volle uno sforzo enorme per riabbassarla. La gamba destra non andava meglio. Poi la stanza ricominciò a girare, proprio come avevo temuto, e all’improvviso diventò impossibile tenere le gambe al di sotto del mio corpo senza perdere rapidamente quota. Il paracadute non si aprì. Ci fu un tonfo sconvolgente e un rimbalzo orrendo. Apparvero molte luci bellissime, e uno degli urli tenuti a freno dietro i denti serrati riuscì ad erompere. Le belle luci lasciarono il posto al soffitto scrostato, e il soffitto lo lasciò alla tenebra. Ricordai un verso di una vecchia canzone che il dottor Mike cantava spesso; parlava di «… mappe tracciate in un soffitto screpolato…». Avrei voluto avere il tempo di leggere la mappa…
Rinvenni quasi subito, credo. Mi sembrava che la stanza continuasse a roteare, ma anch’io giravo alla stessa velocità, adesso. Per un colpo di fortuna ero caduto riverso sul letto. Provai a respirare: pareva che il polmone fosse ancora intatto. Ero fradicio di sudore, e mi sembrava d’essere sdraiato su una collezione di sassi.
Bene, decisi, se sei troppo debole per uccidere Carlson adesso, fingi d’essere ancora più debole. Rimettiti sotto le lenzuola e fai il morto finché non starai meglio. Isham Machiavelli. Saresti stato fiero di me, Maestro.
La collezione di sassi, in realtà, non era altro che i lenzuoli gualciti. Rigirarmi e rimettermi nella posizione di partenza fu un po’ meno difficile che caricare una balena su una barchetta a remi, e mi rimase ancora abbastanza forza per drappeggiarmi i lenzuoli intorno prima che i miei muscoli si trasformassero in burro d’arachidi. Poi restai lì, respirando più lievemente che potevo, e mi chiesi perché il mio brac… perché il mio moncherino non faceva abbastanza male. Detesto guardare in bocca a caval donato: il peso psicologico era già abbastanza opprimente, grazie. Ma mi rendeva irrequieto.
Incominciai a comporre un motivo di square-dance sul tempo delle fitte alle costole. La stanza si associò, un po’ fuori sincronia all’inizio, ma poi così ritmicamente che sembrò letteralmente incespicare quando il suonatore di grancassa, in corridoio, sbagliò una battuta. La musica s’interruppe ma il suonatore di grancassa continuò fuori ritmo, dapprima debolmente, poi più forte. Passi.
Doveva essere Carlson.
Stava facendo un baccano infernale. Febbrilmente, immaginai che trascinasse nella stanza un bazooka e lo puntasse contro di me. Pazzo. Sarebbe bastato uno scacciamosche. Ma cosa diavolo stava portando, allora?
La risposta entrò dalla porta: uno scatolone pieno di oggetti che tintinnavano e sferragliavano. Dietro lo scatolone entrò Wendell Morgan Carlson in persona, ed era un bene che la musica fosse cessata… l’accelerazione del mio polso avrebbe reso non ballabile il motivo. Le mie narici cercarono di dilatarsi intorno ai tamponi, e i capelli sull’occipite si sarebbero rizzati in un riflesso atavistico se sopra non ci fosse stato il peso di cinquecento chili della mia testa.