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Il Nemico!

Non aveva armi in vista. Sembrava più vecchio del suo ritratto nel Manifesto… ma la fronte ossuta, il naso sottile e contratto e gli zigomi alti erano inconfondibili, anche se il mento a punta era nascosto dall’enorme barba grigia. Era un po’ più alto di quanto l’avessi immaginato, aveva più capelli e le spalle più strette. Non mi ero aspettato che avesse la pancia. Indossava un paio di jeans sformati e una camicia di flanella scozzese, rattoppati malamente qua e là, e un paio di sandali neri.

La faccia aveva un’espressione più intelligente di quanto mi piaccia in un antagonista… non sarebbe stato facile imbrogliarlo. Wendell chi? Mai sentito. Io sono appena tornato da Pellucidar, al centro della Terra, e mi chiedevo se lei avrebbe saputo dirmi dov’è finita tutta la gente. Mi dispiace di averle sparato e, già, grazie di avermi tagliato il braccio: è proprio un brav’uomo.

Lui mise lo scatolone su una vecchia scrivania marrone, schiacciando la fotografia scolorita del figlio di qualcuno, si girò subito per incontrare il mio sguardo e disse una cosa incredibile.

— Scusi se l’ho svegliato.

Non so che cosa mi aspettassi. Ma nei pochi momenti febbrili che avevo avuto a disposizione per prepararmi a quel momento, il primo scambio di parole con Wendell Morgan Carlson, non avevo immaginato una simile frase iniziale. Non avevo pronta una risposta.

— Non importa — gracchiai, e cercai di sorridere. Comunque, lui sembrava sconvolto; la sua faccia assunse la stessa espressione preoccupata che avevo già visto una volta… quando? Il giorno prima? Da quanto tempo ero lì?

— Sono contento che sia sveglio — continuò lui, gentilmente. — È rimasto privo di conoscenza per quasi una settimana. — Non era strano che mi sentissi costruito di materiali scadenti. Pensai che dovevo essere un vero duro. Era bello sapere che non mi stavo spegnendo.

— Cosa c’è in quella scatola? — chiesi, in tono un po’ meno impastato.

— La scatola? — Lui abbassò gli occhi. — Oh, si. Pensavo… vede, e il necessario per l’alimentazione intravenosa. Ho studiato la letteratura medica e… — Non finì la frase. La voce era esile ma simpatica, un po’ arrugginita. Sembrava fosse disabituato a servirsene.

— Aveva intenzione di… — Nelle mie viscere si formò un cubo di ghiaccio. Un ago piantato nel braccio mentre dormivo, per risucchiarmi la vita attraverso il tubo; e addio vecchio Isham. Calma, ragazzo, calma.

— Forse sarebbe comunque una buona idea — mormorò lui, pensieroso. — Tutto quello che posso offrirle al momento è pane e latte. Non è latte vero, naturalmente… però posso darle il miele, con il pane. Credo che valga quanto il glucosio.

— Per me va bene, dottore — mi affrettai a dire. — Non sopporto gli aghi. E gli altri strumenti appuntiti. — Ma il miele dove lo prende?

Carlson aggrottò la fronte. — Come sa che sono dottore?

Pensai in fretta. — Non lo sapevo. Credevo che fosse un Guaritore. È stato lei ad amputarmi il braccio? — Mantenni un tono di voce normale.

Lui aggrottò la fronte ancora di più; era un’espressione strana, su quella faccia ossuta. — Giovanotto — disse con riluttanza, — non ho nessuna preparazione medica. Forse il suo braccio si poteva salvare, ma mi è sembrato che… — Con mio grande stupore, era mortalmente imbarazzato.

— Dottore, aveva bisogno di un’amputazione l’ultima volta che l’ho guardato, e sono sicuro che è peggiorato ancora, dopo. Non… non si preoccupi. Sono sicuro che ha fatto del suo meglio. — Se lui era disposto a dimenticare il mio tentativo di sparargli alla testa, come potevo, io, serbargli rancore? Il passato è passato… non avevo bisogno di una ragione nuova per ucciderlo.

— Ho letto tutti i testi che sono riuscito a trovare sulle amputazioni urgenti — continuò lui, sempre con quel tono di scusa. — Ma naturalmente non ne avevo mai eseguita una. — Soltanto su un’intera razza. Gli assicurai che mi sembrava un lavoretto da manuale. Era stranissimo, sentire quell’uomo che mi chiedeva perdono per avermi salvato la vita quando io contavo di togliergli la sua alla prima occasione. Mi sconvolgeva, mi irritava. Le mie ferite offrivano un’utile distrazione, e mi mossi quanto bastava per giustificare un gemito.

Carlson divenne di colpo sollecito. Dallo scatolone tirò fuori un pacchetto di carta, lo aprì e mostrò una siringa di plastica. Poi pescò una boccetta ed aspirò un piccolo quantitativo di liquido trasparente.

— Che cos’è? — chiesi, cercando di allontanare il sospetto dalla mia voce.

— Demerol.

Scrollai la testa. — No, dottore, grazie. Le ho detto che non sopporto gli aghi.

Lui annuì, posò la siringa e pescò un altro oggetto. — Questo è demerol per via orale, allora. Glielo lascio a portata di mano. — Lo mise sul tavolino. Presi la boccetta e le diedi un’occhiata. C’era scritto che era demerol. Non potevo rompere il sigillo del tappo con una mano sola… dovette farlo Carlson. Grazie, mio nemico. Strano, strano, strano! Feci sparire una pillola fingendo di inghiottirla. Lui sembrò soddisfatto.

— Grazie, Doc.

— Non mi chiami «Doc», per favore — disse lui. — Mi chiamo Wendell Carlson.

Se si aspettava una reazione, rimase deluso. — Bene, Wendell. Io mi chiamo Tony Latimer. Lieto di conoscerla. — Era il primo nome che mi era passato per la testa.

Ci fu una pausa nella conversazione. Ci studiammo a vicenda con la franca curiosità di uomini che da diverso tempo non hanno conosciuto compagnie umane. Alla fine lui assunse di nuovo quell’aria imbarazzata e distolse lo sguardo. — È meglio che vada a prenderle da mangiare. Deve avere una fame terribile.

Ci pensai. Avevo l’impressione che sarei stato capace di divorare un cavallo. Crudo. Con le dita. — Sì, me la sento di mangiare.

Carlson uscì dalla stanza, guardandosi i sandali.

Pensai di caricare la siringa con un’overdose e di tendergli un agguato al suo ritorno, ma era soltanto un pensiero. La siringa era troppo lontana. Rivolsi l’attenzione alla boccetta sul comodino. C’era sempre scritto che era demerol… ed era sigillata con la plastica bianca, prima che Carlson l’aprisse. Però Carlson avrebbe potuto bagnare e staccare un’etichetta con il teschio e le tibie e mettere l’altra… Decisi di sopportare i dolori ancora per un po’.

Mi sembrò che passasse molto prima del suo ritorno, ma il mio senso del tempo non era molto attendibile. Portò mezza pagnotta di pane scuro, un barattolo di latte di soia e un po’ di miele denso, cristallizzato. Dicono che l’olfatto sia essenziale per il gusto, e io non potevo togliermi i tamponi, ma il sapore era il più buono che avessi mai assaggiato.

— Non mi ha detto dove si procura il miele, Wendell.

— Ho un piccolo alveare giù in Central Park. Non è molto grande, ma basta per le mie necessità. Far sopravvivere le api durante l’inverno è un problema, ma me la cavo.

— Ci scommetto. — Amabili conversazioni nel mattatoio. Mangiai quello che mi diede e bevvi latte di soia fino a quando mi sentii sazio. I dolori si sentivano ancora, ma meno forti.

Parlammo per circa mezz’ora, quasi sempre di cose senza capo né coda, e mi sembrò che tra noi crescesse una certa tensione, proprio a causa dell’inconcludenza delle nostre parole. C’erano cose di cui non parlavamo, e delle quali avrebbero parlato due uomini innocenti. Stordito com’ero, non ero capace d’inventare una spiegazione plausibile per la mia presenza a New York, e neppure per il colpo che gli avevo sparato. Lui lo accettava; ma in cambio io non dovevo chiedergli come mai era finito a vivere a New York. Non dovevo sapere chi era Wendell Morgan Carlson. Era un patto assurdo, un livello di verità che era impossibile mantenere, ma andava bene per entrambi. Non sapevo immaginare cosa pensasse lui delle omissioni nella mia conversazione, ma ero convinto che il suo silenzio fosse un’ammissione di colpa, e la mia decisione si rafforzava. Finalmente mi lasciò, consigliandomi di dormire, se ci riuscivo, e promettendomi di ritornare l’indomani.