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Non dormii. Non subito. Rimasi a guardare per un secolo la boccetta di demerol, spiegando a me stesso che era molto improbabile che non fosse genuina. Non potevo farne a meno… l’odio e la diffidenza verso Carlson avevano radici profonde dentro di me.

Ma se il dolore è abbastanza intenso può vincere anche il condizionamento più forte. Verso il tramonto inghiottii la pillola che avevo nascosto e poco dopo mi addormentai.

I giorni seguenti passarono lentamente.

Ehilà… il nastro sta per finire. Devo girar…

VII

Trascrizione del nastro di Stone. Seconda parte.

I giorni passarono lentamente, ma non lentamente come i dolori. La lucidità ritornò lentamente, ma non più in fretta della forza fisica.

Devi capire come andarono le cose, Maestro.

Il demerol mi aiutava… ma non perché eliminava il dolore. Mi teneva così intontito che spesso dimenticavo che il dolore era presente. In un caldo splendore creativo escogitavo un modo sottile e fantasioso per uccidere Carlson… e mezz’ora dopo lo stesso piano mi appariva irrimediabilmente idiota. Un’imperfezione del vetro della finestra di fronte, che distorceva la linea pura e orgogliosa della cupola della Lowe Library, mi tenne affascinato per molte ore… eppure sembrava che non riuscissi a concentrarmi neppure per cinque minuti su questioni pratiche.

Carlson andava e veniva; faceva poche domande e rispondeva a pochissime, e nel mio stato stuporoso io cercavo di accendere il mio odio fino al punto di uccidere. E… mio caro Collaci, istruttore e mentore e (spero) amico, non ci riuscivo.

Devi capirmi… passavo ore cercando di concentrarmi sull’odio che mio padre mi aveva trasmesso, di essere all’altezza della missione impostami dal destino, di fare il mio dovere. Ma era maledettamente difficile: Carlson era una combinazione assurda… così distratto da ricordarmi mio padre, e a modo suo premuroso quanto te. Dimenticava il cappotto, quando usciva la sera… ma tornava in orario con la colazione calda, anche se tremava e sembrava non accorgersene. Dimenticava il mio nome, ma non il mio vaso da notte. Cercava in tutte le direzioni, sbattendo gli occhi, la tazza di caffè che teneva sulle ginocchia, ma non dimenticava mai di mettere la mia dove potevo prenderla senza sforzarmi le costole. Scoprii per puro caso che dormivo nell’unico letto che Carlson aveva trascinato nella Butler Hall, e che lui si sdraiava su un giaciglio improvvisato nel corridoio, per essere vicino nel caso che gridassi durante la notte.

Non mi forniva indizi circa le sue motivazioni, non mi lasciava intuire che cosa lo tenesse prigioniero a New York. Parlava della sua vita in esilio con molta semplicità, come di un fatto che non richiedesse spiegazioni. Mi sembrava sempre più ovvio che il suo silenzio fosse un’ammissione di colpa, che non potesse spiegare la sua sopravvivenza e la sua presenza in quel mausoleo fetido senza riconoscere il suo crimine. Mi sforzavo di odiarlo. Quanto mi sforzavo.

Ma era maledettamente difficile. Lui provvedeva alle mie esigenze prima che potessi esprimerle, alle mie necessità prima che potessi formarle. Intuiva quando sentivo bisogno di compagnia e quando volevo essere lasciato in pace, quando avevo bisogno di parlare e quando volevo ascoltare. Sopportava la mia irritabilità e le mie rabbie in un modo che, stranamente, mi consentiva di salvare il mio amor proprio.

Restava assente per lunghi periodi, di giorno e di notte, e non parlava mai delle sue attività. Io non insistevo a chiederglielo: come assassino in convalescenza, era meglio che non mostrassi curiosità eccessiva. Non potevo correre il rischio di destare i suoi sospetti.

Per esempio, non parlammo mai delle mie armi, o di dov’erano finite.

E così la tensione inconscia del nostro primo colloquio rimase; era nata dalle cose di cui non parlavamo. Era evidente per entrambi… eppure c’era anche una strana affinità: tutti e due vivevamo con qualcosa che non potevamo confidare, e riconoscevamo nell’altro la stessa situazione. Persino mentre progettavo di ucciderlo, sentivo una sorta di empatia tra Wendell Morgan Carlson e me. E mi turbava. Se Carlson era ciò che sapevo che era, ciò che il suo silenzio colpevole dimostrava, allora la sua morte era necessaria e giusta… perché mio padre mi aveva insegnato che i debiti si pagano sempre. Ma non potevo fare a meno di provare simpatia per quel vecchio distratto.

Eppure la tensione c’era. Parlavamo soltanto di cose anodine: dove si procurava la benzina per far funzionare il generatore che forniva energia alle prese a muro nelle stanze al piano terreno (non discutemmo dove l’avrebbe messa, adesso che gli avevo rovinato il serbatoio da mille litri). La distanza che doveva percorrere per trovare farina, fagioli e cereali ancora commestibili. La fatica che aveva fatto per tenere in funzione le colture idroponiche dell’Università, tutto da solo. Quel che faceva con i rifiuti delle fogne. La probabilità che l’anno prossimo crescessero i pomodori nel terreno sabbioso di Central Park. Lo sbaglio che aveva commesso non pensando di usare come carburante l’alcol di puro grano del laboratorio di Chimica Organica. Non parlavamo mai del motivo che l’aveva spinto ad affrontare le complesse difficoltà della vita a New York, né di quello che mi aveva indotto a venire a cercarlo. Lui… svagava il paziente con una conversazione leggera, e il paziente lo lasciava fare.

L’odio, dentro di me, era pronto a scattare, ma non riuscivo a sovrapporre l’immagine che avevo sempre avuto di Carlson a quel vecchio accademico simpatico e un po’ svanito. Perciò l’odio mi ribolliva nel cranio e faceva della convalescenza un periodo confuso e senza scopo. Peggiorò ancora di più quando Carlson, spiegandomi che poche cose al mondo danno assuefazione più del demerol per via orale, smise bruscamente di somministrarmelo durante la seconda settimana. Gli analgesici meno potenti come il Talwin e l’aspirina si erano tutti decomposti da molti anni, e se avessi mandato Carlson a frugare nello zaino che avevo lasciato sotto una station wagon nella 114a Strada per portarmi la marijuana rimasta, con ogni probabilità avrebbe trovato la piantina di New York annotata da Collaci, e il Manifesto ciclostilato. E poi, le costole mi facevano tanto male che non avrei potuto fumare.

Una notte mi svegliai, sudato e dolorante, e scoprii che la stanza aveva un’angolazione pazzesca e che la fiamma della candela si protendeva nel buio come una lingua ansiosa. Ero quasi caduto dal letto, e il braccio destro mi impediva di cadere completamente, ma non potevo risalire senza l’altro braccio. Non l’avevo. Le costole incominciarono a far male mentre consideravo il dilemma, e gridai per il dolore.

Dal corridoio veniva un russare rumoroso che si spezzò in un grugnito, «Cosa? Cosa c’è?» e poi in una serie di ansiti quando Carlson ruzzolò diligentemente dal letto per assistermi. Ci fu un tonfo, poi uno ancora più forte accompagnato da uno scroscio, e quindi uno schianto immane che echeggiò e riecheggiò. Comparve Carlson, un vecchio panciuto dal pigiama giallo, gli occhi semichiusi e sfuocati, un piede infilato in un cestino metallico per la carta straccia, che veniva valorosamente in mio aiuto. Urtò con la spalla l’intelaiatura della porta, cercò di riprendere l’equilibrio e cadde lungo disteso. Credo che si svegliasse completamente un secondo dopo essere finito sul pavimento; gli occhi si spalancarono e videro che lo stavo guardando, incredulo, da una distanza di pochi centimetri. E per un momento interminabile l’assurdità delle nostre rispettive posizioni ci colpì, e scoppiammo simultaneamente in risate scroscianti che s’interruppero di colpo; e un attimo dopo lui mi aiutò a rimettermi a letto con mani forti e premurose, mentre io mi sforzavo di non gemere a gran voce.