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— Jake — cominciò senza preamboli, — non ho né tempo né voglia di discutere, quindi stai zitto e ascolta, d’accordo? Ti consiglio di prendere con te la tua famiglia e di lasciare New York immediatamente… ruba una macchina, se è necessario, o sequestra un autobus se preferisci, ma vedi di trovarti almeno a venti miglia di distanza prima di mezzanotte.

— Ma…

— … dirigiti verso nord, se vuoi ascoltare il mio consiglio, e per amor di Dio stai lontano da tutte le città e cittadine e dai gruppi di gente. Se puoi, passa sopravvento rispetto alle industrie più vicine, e porta con te una quantità di formaldeide… e anche un’arma da fuoco, se ce l’hai. Addio, amico mio, e ricorda che faccio questo per il bene dell’umanità. Non so se lo capirai, ma me lo auguro.

— Wendell, in nome di Dio, che cos’hai…? — Ma la comunicazione s’era interrotta.

Barbare era vicina a me e aveva l’aria preoccupata. Teneva in braccio mio figlio Isham. — Che cosa c’è?

— Non lo so — dissi, incerto. — Ma credo che Wendell sia impazzito. Devo andare da lui. Resta con i bambini. Tornerò al più presto possibile. E… Barbara…

— Sì?

— So che ti sembrerà pazzesco, ma prepara una valigia e tieniti pronta a lasciare immediatamente la città se ti telefono per dirti di farlo.

— Lasciare la città? Senza di te?

— Sì, appunto. Lascia New York e non tornarci mai più. Sono virtualmente certo che non dovrai farlo, ma c’è la vaga possibilità che Wendell sappia di cosa sta parlando. In tal caso, ti aspetterò alla baita in riva al lago, al più presto possibile. — Poi rifiutai di rispondere ad altre domande e me ne andai, diretto a Long Island.

Quando arrivai alla casa di Carlson in Old Westbury entrai con la mia chiave e feci per scendere nel suo laboratorio. Ma lo trovai al piano terreno, nel mio, appollaiato su uno sgabello, intento a fissare una bottiglia che teneva nella destra. L’interno roteava e cambiava colore.

Carlson alzò la testa. — Sei uno stupido, Jake — mi disse a voce bassa prima che io potessi parlare. — Ti avevo dato una possibilità.

— Wendell, che cosa diavolo significa? Mia moglie s’è presa una paura d’inferno…

— Ricordi l’anosmia controllata di cui mi parlasti quand’ero all’ospedale? — continuò lui, tranquillamente. — Dicesti che il guaio è che il mondo puzza, giusto?

Lo fissai. Ricordavo vagamente le mie parole.

— Bene — disse. — Ho trovato una soluzione.

E Carlson mi disse che cosa teneva in mano. Una sola parola.

Persi la testa, completamente. Gli saltai addosso, cercando di stringergli la gola, e lui mi colpì con la mano sinistra; l’anello sfaccettato mi lasciò la cicatriche che ho ancora oggi. Persi i sensi. Quando rinvenni ero solo, solo con un rimorso irrimediabile che urlava nella mia mente, e con un terrore che mi attanagliava le viscere. Sul pavimento accanto a me c’era un biglietto scritto da Wendell, e mi diceva che, secondo il mio orologio, avevo un’ora a disposizione. Mi precipitai subito al telefono e sprecai dieci minuti cercando di chiamare Barbara. Non ci riuscii… un guasto alla linea, mi disse il centralino. Stravolto, presi tutta la formaldeide che trovai nei due laboratori e un respiratore, uscii nella notte e mi accinsi a rubare una macchina.

Ci misi venti minuti, niente male per il primo tentativo, ma il tempo volava… ce la feci appena ad arrivare a Manhattan, nonostante le condizioni ideali del traffico, prima che l’autostrada diventasse una macelleria.

Alle nove in punto, Wendell Morgan Carlson salì sul tetto dell’enorme Butler Library della Columbia, sostenuta dalle colonne finto-greche e da secoli di pensiero umano, rivolta verso nord al di sopra di un quadrilatero in cui l’erba e gli alberi avevano quasi rinunciato a vivere, verso l’immensa cupola della Lowe Library, e più oltre, verso il ghetto dove mia moglie e i mei figli stavano attendendo ignari. Teneva nelle mani la boccetta che non ero riuscito a strappargli: conteneva approssimativamente due cucchiaini di una coltura di virus infinitamente raffinata e concentrata. Era il prodotto finale del nostro lavoro di un anno, e duplicava ciò che i militari avevano impiegato anni e miliardi per ottenere: una varietà di virus che poteva diffondersi sul globo in quarantotto ore. Non c’erano antidoti né vaccini, non c’erano difese possibili, virtualmente, per tutta l’umanità. Era diabolico, immorale ed efficientissimo. D’altra parte, non era letale.

Non lo è, in se stesso. Ma Carlson aveva concluso, come tanti altri prima di lui, che qualche milione di vite era un prezzo accettabile per la salvezza del mondo; e perciò alle nove in punto della sera del 17 dicembre 1984 si sporse dal parapetto di Butler Hall e lasciò cadere la sua boccetta sulla distesa di cemento, sei piani più sotto. La boccetta andò in frantumi e sparse il suo contenuto nella brezza fiacca che soffiava ancora sul campus.

Carlson mi aveva detto una sola parola, quel pomeriggio: «Iperosmia».

Entro quarantott’ore ogni uomo, donna e bambino rimasto vivo sulla terra possedeva un olfatto approssimativamente cento volte più efficiente di quello di qualunque lupo che mai abbia ululato.

In quelle quarantotto ore, perì poco meno di un quinto della popolazione del pianeta, suicida con tutti i mezzi possibili e immaginabili, e ogni città del mondo riversò i suoi abitanti rimasti vivi nella campagna circostante. L’antico sistema soppressore degli odori esistente nel cervello umano crollò sotto la domanda insopportabile, sovraccaricato e bruciato in un istante.

Il complesso colosso chiamato Civiltà Moderna si arrestò in poco meno di due giorni. Nelle ultime ore, i pochi cittadini dell’altra parte del globo che ascoltarono e credettero le brevi, stravolte grida di morte dei grandi mass-media lottarono valorosamente, ma invano, per realizzare misure d’emergenza. I più saggi tentarono, come avevo fatto io, di annullare il loro olfatto con sostanze come la formaldeide; ma c’è un limite alla quantità di formaldeide che persino i più disperati possono riuscire a procurarsi in un giorno o anche meno, e in generale i suoi effetti sono temporanei. Altri optarono per ambienti stagni, se riuscivano a trovarli; e vi morirono ben presto, per asfissia quando le loro riserve d’aria si esaurirono, o per suicidio quando, nella speranza fervida di aver evitato il virus, aprirono le porte. Si scopri che la tecnologia umana non aveva prodotto tappi per il naso efficienti, e neppure sistemi di purificazione dell’aria capaci di filtrare il virus di Carlson. Sebbene il resto del regno animale non fosse particolarmente colpito, l’umanità non poté frenare gli effetti del tremendo Morbo Iperosmico, e incominciò l’Esodo…

Non credo che Carlson si rallegrasse della carneficina che seguì, anche se un malthusiano di stretta osservanza l’avrebbe forse considerata una potatura necessaria ormai da molto tempo. Ma è facile capire perché la riteneva necessaria, per visualizzare il «mondo migliore» al quale sacrificò tante vite. Le città cadute in rovina. Le automobili abbandonate a marcire. L’industria pesante estinta come i dinosauri. L’industria degli alimenti sintetici alla rovina. Il profumo divenuto ciò che era sempre stato, un ricordo; e così pure il tabacco. Un’ondata di smania di pulizia che investiva il mondo, e una flatulenza in pubblico diventava un reato capitale. Secaucus, nel New Jersey, abbandonata agli avvoltoi. Le comuni del ritorno alla natura che trovavano la loro apoteosi, aiutando i superstiti urbani a sopravvivere (la tipica frase: «Se non ti piacciono gli hippy, la prossima volta che hai fame chiama un poliziotto»). La forza della disperazione che imponeva nuovi sviluppi nella produzione dell’energia per mezzo del sole, del vento e dell’acqua anziché mediante la combustione inefficiente di risorse più preziose. Gli impianti igienici finalmente perfezionati. E un cambiamento profondo e interessante nelle usanze umane dell’accoppiamento via via che il finto interesse o disinteresse fosse diventato una simulazione insostenibile (come avrebbe potuto spiegarci qualunque lupo, l’odore del desiderio non si può simulare né nascondere).