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Continuai a camminare verso nord.

Arrivai in Columbus Circle, e d’impulso svoltai in Central Park. Era un’enclave di vita in quel territorio di morte, e non potevo perdermelo… sebbene l’intelletto mi avvertisse che avrei potuto incontrare un doberman che da vent’anni non aveva visto una scatola di cibo per cani.

L’Esodo aveva fatto bene almeno a quel posto… era lussureggiante di vegetazione, adesso che orde di umani non soffocavano più la sua naturale aspirazione a vivere. Olmi e querce si protendevano verso le nubi con lo stesso ottimismo degli aceri e delle betulle intorno a Fresh Start, e l’erba alta era la cosa più verde che avessi visto a New York. Eppure… in certi punti era morta, e arbusti morti erano sparsi qua e là. Forse le prime impressioni m’ingannavano… forse un pezzetto di terra circondato da una enorme cripta di cemento non era un’ecologia vivibile, dopotutto. Ma del resto, forse non lo era neppure Fresh Start.

Mi sentivo di nuovo depresso. Misi in tasca la bomba a mano e sedetti su una panchina del parco, dicendomi che un po’ di riposo avrebbe fatto miracoli per la zoppia. Dopo un po’, alcuni elementi statici del paesaggio si mossero… quel posto era vivo. C’erano gatti, e cani magri e famelici di varie specie, e apparentemente nessuno era abbastanza vecchio per sapere cos’era un uomo. La loro fiducia mi parve incoraggiante… come ho detto, sono un sicario pacifico e socievole.

Mi guardai intorno, chiedendomi perché tanti degli scheletri umani relativamente poco numerosi avevano portato armi la notte dell’Esodo… perché entrare armati in un parco? Poi sentii una specie di colpo di tosse e mi voltai, e per un secondo pazzesco credetti di sapere cos’era.

Un leopardo.

Lo riconobbi dalle illustrazioni sui libri di mio padre; e sapevo cos’era e sapevo cosa poteva fare. Ma il mio sistema dell’adrenalina era stanco di mettermi in pugno il fucile… quindi restai assolutamente immobile e mi concentrai per esalare un odore amichevole. La mia pistola produceva alte temperature, non potenza d’arresto; le bombe a mano non servono a molto contro un bersaglio mobile e io stavo appoggiato all’indietro contro il fucile… ma non era per questo che stavo immobile. Quel giorno avevo imparato che scattare non è la risposta ottimale alla paura.

Perciò guardai meglio e vidi che il leopardo era incredibilmente vecchio, magro e sfregiato da unghiate, più maestoso che temibile. Se in Central Park ci fossero stati animali selvatici in libertà, mio padre me l’avrebbe detto… conosceva il mio percorso. Eppure quel felino sembrava abbastanza vecchio per risalire a tempi anteriori all’Esodo. Sicuramente sapeva che ero un uomo. Immagino che fosse fuggito da uno zoo nella confusione del momento, o forse se l’era tenuto in casa qualche riccone. So che facevano cose del genere, ai Vecchi Tempi. Secondo me un leopardo doveva essere una seccatura più di un’aquila… mio padre ne tenne una per quattro anni, e io non avevo mai avuto tante grane per il pollame come in quel periodo. Mio padre diceva che era il simbolo di qualcosa di grande che era morto, ma io pensavo che fosse una stupidaggine.

Però quel vecchio felino sembrava abbastanza amichevole, a guardarlo. Sembrava patriarcale e saggio, e terribilmente affamato. Presi una decisione rischiosa, senza un motivo riconoscibile. Mi sfilai adagio lo zaino dalle spalle, tirai fuori alcune tavolette nutritive, mi avvicinai di quattro passi al leopardo e mi accosciai, porgendogliele.

Fosse per istinto, per un ricordo o per intuizione, il grosso felino riconobbe la mia intenzione e si avvicinò, senza fretta. Stranamente, più si avvicinava e meno avevo paura, fino a quando mi passò sulla mano le fauci così grandi che avrebbero potuto amputarmela. So che le tavolette alimentari non hanno odore di niente, e tanto meno di cibo, ma lui capì empaticamente che cosa gli offrivo… o forse sentì l’ironia simbolica dei due antichi antagonisti, negro e leopardo, che s’incontravano a New York per dividersi il cibo. Le mangiò tutte, senza scalfirmi le dita. Aveva la lingua sorprendentemente ruvida e raspante, ma non rabbrividii; e non ne avevo motivo. Quando ebbe finito emise un suono che era una via di mezzo tra un tossire e un russare, e mi strusciò la testa contro la gamba.

Era vecchio, ma poderoso; persi l’equilibrio e caddi all’indietro. Atterrai correttamente, certo, ma non mi rialzai. Le forze mi abbandonarono e restai lì a guardare la parte inferiore della panchina.

Per la prima volta da quando ero entrato in New York avevo comunicato con un essere vivente, e avevo ricevuto una risposta: e inspiegabilmente quella scoperta mi aveva tolto le forze. Mi sdraiai sull’erba e attesi che il terreno smettesse di sussultare, sorpreso di constatare quanto ero debole e in quanti posti avevo dolori insopportabili. Dissi alcune parole che mi aveva insegnato Collaci, e questo mi aiutò, ma non abbastanza. L’effetto dell’eroina era passato prima del dovuto, e non ne avevo più.

Sembrava che fosse venuto il momento di farmi una fumata. Discussi con me stesso mentre allungavo le braccia per prendere l’astuccio del pronto soccorso dallo zaino, ma non vedevo alternative. Carlson non era un combattente addestrato, non aveva mai avuto un istruttore come Collaci: avrei potuto farlo fuori anche da drogato. E forse non ce l’avrei fatta a rimettermi in piedi, altrimenti.

Lo spinello che scelsi era sottile come un ago… troppo mi avrebbe fatto più male che bene. Non avevo intenzione di mettermi fuori uso in questa città. L’accesi con l’accendino a bobina e trassi una boccata profonda, e trattenni il fumo nei polmoni il più a lungo possibile. A metà della seconda tirata le foglie che danzavano sopra la mia testa incominciarono a scintillare, e diventò più difficile localizzare la mia stanchezza. Alla terza boccata divenne solo un ricordo, e l’ultima incominciò a sciogliere i dolori come l’acqua calda scioglie la neve. L’analgesico della natura: il dono della terra.

Incominciai a pensare al leopardo, che adesso s’era sdraiato e si lavava le zampe. Era magnifico nella sua decadenza… qualcosa, nei suoi occhi, mi diceva che intendeva vivere in eterno e morire nel tentativo. Era l’unico della sua specie nell’universo, e potevo identificarmi con lui… anch’io mi ero sempre sentito diverso da tutti gli altri.

Eppure… ero della stessa specie di quelli che l’avevano intrappolato, ingabbiato, mostrato ai curiosi, e poi l’avevano abbandonato a morire a mezzo mondo di distanza dalla sua patria. Perché non cercava di uccidermi? Al suo posto mi sarei comportato forse in modo diverso…

Con la chiarezza logica data dalla droga, continuai a riflettere. Un tempo gli antenati del leopardo avevano cercato di uccidere i miei e di mangiarli, eppure non c’era motivo perché io odiassi lui. Ucciderlo non avrebbe aiutato i miei antenati. Uccidere me non avrebbe dato nessuna utilità al leopardo, non gli avrebbe facilitato l’esistenza… se non con un pasto per un giorno, e io gliel’avevo già dato.

E allora, mi chiesi irrequieto, che cosa risolverò uccidendo Carlson? Non potevo rimettere nella bottiglia il Virus Iperosmico, e neppure salvare la vita di quelli che erano ancora vivi. Perché fare tanta strada per uccidere?

Non era un pensiero nuovo, naturalmente. L’interrogativo si era posto tante volte durante il mio addestramento. Collaci pretendeva di discutere di filosofia mentre mi allenava a combattere: affermava che un uomo che non sapeva sostenere una conversazione mentre si batteva per la propria vita non poteva diventare un killer davvero efficiente. Potevi interromperti per riflettere, ma se decideva che stavi semplicemente risparmiando il fiato smetteva di tirare i pugni.