Un giorno non avevamo un argomento particolare da dibattere e io espressi i miei dubbi circa la missione per la quale mi stavo preparando. A cosa servirà uccidere Carlson? chiesi a Collaci. Il Maestro si disimpegnò e si tirò indietro, ansimando un po’, e sfoggiò il suo raro sogghigno da lupo.
— La sopravvivenza ha strane permutazioni, Isham. La vendetta è un attributo unicamente umano… ci è più facile seppellire i nostri morti quando li abbiamo vendicati. Noi abbiamo molti morti. — Scelse uno stuzzicadenti e se lo cacciò in bocca. — E per amore di tuo padre, devi essere tu a farlo… solo se è suo figlio a provvedere all’espiazione il dottor Stone potrà assolvere se stesso. Altrimenti ci andrei io, a uccidere quello stupido bastardo. — E all’improvviso cercò, senza riuscirci, di fratturarmi la clavicola.
E così adesso ero seduto, stanco, affamato, ferito e un po’ intontito, in mezzo a un enorme mausoleo isolano, e mi rivolgevo la domanda che subito dopo avevo rivolto a Collaci mentre cercavo, senza riuscirci, di sfondargli la gabbia toracica: è morale uccidere un uomo?
Dopo tanti mesi, mi sembrò di sentire di nuovo la sua risposta: Forse no, ma qualche volta è necessario.
Con quel pensiero le forze mi tornarono e mi alzai in piedi. I miei pensieri erano viscidi come un sapone bagnato, erano vicini ma sfuggivano alla mia stretta. Ne pescai uno in quel groviglio e me l’avvolsi addosso, furiosamente: ucciderò Wendell Morgan Carlson. Era sufficiente.
Dissi addio al leopardo che era più fortunato di me perché non sarebbe mai stato ossessionato dagli antichi fantasmi, lasciai il parco e continuai lungo Broadway, vigile ed esiziale per quanto sapevo esserlo.
Quando arrivai alla 114a Strada, guardai sopra i tetti, e la vidi: un’esile colonna di fumo a nord-est, verso Amsterdam Avenue. La leggenda e l’intuizione di mio padre non avevano sbagliato. Carlson era rintanato dove s’era sempre sentito più sicuro… nell’utero accademico della Columbia. Sentii un sogghigno schiudermi le labbra. Presto sarebbe finito tutto, e avrei potuto tornare ad essere me stesso… chiunque fossi.
Lasciai lo zaino sotto una station wagon e considerai la mia situazione. Avevo tre proiettili traccianti nella pistola anti-Musky, tre bombe incendiarie agganciate alla cintura, e il fucile con mirino telescopico con il quale intendevo uccidere Carlson. Nel fucile c’era un caricatore con otto proiettili in grado di uccidere un uomo… sette più del necessario. Controllai il funzionamento e misi un proiettile in canna.
Nel mio zaino c’era una piantina dettagliata del Morningside Campus, ma non la tirai fuori… ne avevo una identica nella mente. Anche se io e il Maestro non avevamo condiviso completamente la certezza di mio padre che Carlson fosse alla Columbia, avevo passato ore ed ore studiando le piante del campus che mi dava lui; le avevo studiate scrupolosamente come le carte stradali di New York che mi aveva dato Collaci. Sembrava l’unico contributo diretto che mio padre poteva dare alla mia missione.
A quanto pareva, il suo sforzo aveva portato a un buon risultato.
Mi chiedevo se Carlson mi stava aspettando. Non ero sicuro che il chiasso della macchina che avevo fatto esplodere nella parte bassa della città fosse arrivato fin lì; non sapevo se uno scoppio in una metropoli piena di tubature del gas abbandonate fosse abbastanza insolito per mettere in guardia Carlson. Perciò dovevo presumere che fosse così. Altri uomini erano venuti a New York per liquidare Carlson, come indipendenti, e nessuno era mai tornato.
Adesso la mia mente funzionava con efficienza, senza più confusione. Ero impaziente. Un lampione, investito da una macchina, si appoggiava a un muro come se fosse ubriaco, e per un momento pensai di salire sui tetti, per sfruttare al massimo il fattore sorpresa. Ma i tetti sono territorio dei Musky, e del resto non avevo la forza di arrampicarmi fin lassù.
Entrai nel campus da sud-ovest, dall’ingresso della 115a Strada. Come aveva predetto mio padre, il cancello era chiuso… solo l’entrata principale sulla 116a Strada veniva lasciata aperta di notte a quei tempi, ed era notte quando Carlson aveva lanciato la boccetta. Ma la serratura era una semplice Series 10 America che avrebbe fatto ridere il Maestro. Cedette al mio secondo tentativo, e io passai oltre il cancello di ferro senza far rumore… avevo provveduto a ungere i cardini, prima.
Una scalinata portava a un breve passaggio, un mosaico di esagoni grigi fiancheggiato da muri che arrivavano all’altezza della cintura. Il passaggio si snodava tra Furnald e Ferris Booth Halls, e sapevo che si apriva nel grande quadrilatero interno della Columbia. C’erano foglie sparse dappertutto, e alberi d’ogni specie si agitavano nell’energica brezza pomeridiana, in un milione di girandole verdi.
Procedetti rasente al muro di destra fino a quando arrivai a un muro perpendicolare più alto, gli girai intorno e mi trovai davanti alla grande facciata di pietra e di vetri sfondati di Ferris Booth Hall, il centro delle attività studentesche; girai gli occhi verso la Butler Library, che vedevo dal lato ovest. In mezzo c’erano parecchi macchinari da costruzione… uno dei vari gruppi studenteschi che avevano avuto sede in Booth Hall era riuscito a far saltare in aria se stesso e una parte cospicua dell’edificio nel 1983, e la ricostruzione era ancora in corso il Giorno dell’Esodo. Una gru enorme stava davanti all’edificio devastato, circondata da mucchi di mattoni e di tubi, un bulldozer, capannoni, qualche camion, un serbatoio di benzina da mille litri e un paio di roulotte.
Ma i miei occhi guardavano al di là di quella ferraglia convenzionale, verso un congegno curioso, proprio davanti alla Butler Library e seminascosto dalle siepi incolte. Non avrei saputo dire cos’era: sembrava una piovra che facesse l’amore con un banco stereo. Ma evidentemente non quadrava con il paesaggio. Anche la seconda intuizione di mio padre era esatta: Carlson si serviva della Butler Library come della sua base delle operazioni. Dio solo sapeva a cosa serviva quel congegno; ma un uomo senza adenoidi, in una città piena di Musky e di pastori tedeschi affamati non l’avrebbe costruito più lontano da casa di quanto fosse indispensabile. Il posto era quello.
Mi riempii d’aria il petto e i polmoni, e sogghignai fino a che mi fecero male le guance. Impugnai il fucile e mi guardai le mani. Salde come rocce.
Carlson, bastardo assassino, pensai, ci siamo. La razza umana ti ha trovato, e la sua Mano è vicina. Ancora qualche respiro e tu morirai di morte violenta, vecchio, come un gatto innocuo in una vetrina d’un tabaccaio, come un bambino di otto anni su un marciapiedi di Harlem, come una civiltà planetaria che credevi di migliorare. Preparati.
Avanzai.
Wendell Morgan Carlson usci tra i grandi lampioni sfondati che fiancheggiavano l’entrata principale di Butler Hall. Lo vidi chiaramente di profilo: era la faccia che avevo imparato a memoria dal Manifesto e dai disegni di mio padre, riconoscibile nella luce pomeridiana nonostante la barba bianca e i capelli scomposti. Guardò verso di me, rabbrividì e si tirò indietro una frazione di secondo prima del mio sparo.
Deciso a inchiodarlo prima che potesse arraffare un’arma e trincerarsi, abbassai la testa e mi misi a correre in cerca del più grande assassino di tutti i tempi.
E il primo Musky attaccò.
Il terrore mi grandinò nel cervello, scacciando la rabbia, e qualcosa di caldo e intangibile s’incollò alla mia faccia. Urlai, credo, ma riuscii a trattenermi dall’aspirare mentre cadevo e rotolavo, lasciando il fucile e cercando invano di strapparmi quella cosa dalla faccia. L’ultima cosa che vidi prima che i gas invisibili mi offuscassero la vista fu l’enorme gru accanto a me, sulla destra, con il lungo braccio teso verso il cielo come per indicare il Paradiso. Poi il mondo tremolò e sbiadì, e io strappai la pistola dalla fondina. Mirai senza vedere, contrassi spasmodicamente l’indice, e la pistola mi sobbalzò nella mano.