Bob Shaw
Cosmo selvaggio
Per il Cosmo strano e selvaggio me ne vado, da eterno straniero. Il mio amore sono le sue strade e i brillanti occhi del pericolo.
1
Candar dovette aspettare settemila anni prima di vedere la sua seconda astronave.
Era poco più di un cucciolo quando aveva visto la prima, ma il ricordo di quell’avvenimento era ancora vivo e presente nella sua memoria. Era una mattina calda e umida; suo padre e sua madre avevano appena cominciato a razziare un villaggio di cibo a due gambe. Candar stava osservando tranquillamente i loro grandi corpi grigi al lavoro, quando i suoi sensi acuti lo avvertirono dell’avvicinarsi di qualcosa di molto grande, qualcosa che gli era completamente estraneo. Allarmato, alzò la testa, ma i suoi genitori, che avevano i sensi annebbiati per l’odore del cibo, non si accorsero della minaccia finché non la videro.
La nave volava bassa, così veloce che l’aria umida veniva compressa in opache nuvole grigie all’interno delle onde d’urto create dal suo muso tozzo. Le nuvole le svolazzavano intorno come un mantello cencioso, nascondendola e rivelandola alternativamente alla vista. Candar si chiese come fosse possibile che qualcosa si muovesse a quella velocità senza provocare alcun rumore. Per un attimo restò paralizzato al pensiero che l’universo contenesse esseri i cui poteri erano uguali, o forse superiori, a quelli degli appartenenti alla sua specie.
Soltanto dopo che la grande nave gli fu passata sopra la testa venne il rumore, spaventoso, che rase al suolo le fragili capanne del cibo più brutalmente ancora di quanto avrebbero potuto fare suo padre e sua madre. La nave fece una brusca virata, si fermò alta nell’aria mattutina, e improvvisamente Candar e i suoi genitori vennero sollevati in cielo. Candar si accorse di essere imprigionato in un campo di forza. Ne misurò gli intervalli di frequenza, le lunghezze d’onda, i gradienti di intensità, e scoprì perfino che il suo cervello poteva produrre un campo analogo… ma non riuscì a liberarsi dai legami invisibili che gli avevano imprigionato il corpo.
Lui e i suoi genitori vennero risucchiati verso l’alto, dove il cielo era nero e si poteva udire la voce delle stelle. Il sole si fece rapidamente più grande, poi, dopo qualche tempo, suo padre e sua madre vennero liberati. Sparirono dalla vista in pochi secondi e Candar, che si stava già adattando al nuovo ambiente, ne dedusse che erano stati lanciati su una rotta che sarebbe finita nella fornace brillante del sole. A giudicare dai loro sforzi frenetici per liberarsi, mentre rimpicciolivano nel vuoto, anche loro avevano raggiunto le stesse conclusioni.
Candar smise di pensare a loro e cercò di anticipare il proprio destino. C’erano molte creature senzienti nella nave, e presentavano un alone di vita non molto diverso da quello delle creature-cibo, ma erano troppo lontani e troppo ben protetti perché potesse esercitare qualche influsso sulle loro azioni. Quando vide il sole rimpicciolire fino a confondersi con le altre stelle smise di agitarsi e di contorcersi inutilmente. Da allora il tempo cessò di aver significato per Candar.
Restò in stato di quiete finché non si accorse di una stella doppia che si faceva più brillante, oscurando tutte le sue vicine. Il sistema continuò a ingrandire, e alla fine si trasformò in due soli che si corteggiavano l’un l’altro come in una danza rituale. La nave individuò un pianeta di roccia nera che ruotava fra i due soli su un’orbita precaria e fortemente ellittica. Qui, molto al di sopra della superficie arida del pianeta, disattivò il campo di forza con cui teneva prigioniero Candar. Soltanto trasformando il suo corpo in una matassa di corda organica lui riuscì a sopravvivere alla caduta. E prima che fosse riuscito a riformare i suoi organi sensori, la nave era sparita.
Candar sapeva di essere stato imprigionato. Sapeva anche che su quel mondo, completamente privo di cibo, prima o poi sarebbe morto, e non poteva fare altro che attendere il verificarsi di quell’evento impensabile.
Il suo nuovo mondo completava la sua faticosa corsa fra i due soli in un anno. Ogni volta, la roccia nera fondeva e scorreva come fango, e niente poteva sopravvivere, tranne Candar.
E passarono settemila anni prima che vedesse la sua seconda astronave.
La cosa che Dave Surgenor detestava maggiormente sui pianeti ad alta gravità era la velocità con cui scendevano le gocce di sudore. Un rivoletto si formava sulla fronte, e con la foga di un insetto malevolo gli scorreva lungo la guancia e sotto il colletto prima che avesse il tempo di alzare una mano per asciugarsi. In sedici anni passati al Servizio Cartografico non era ancora riuscito ad abituarcisi.
— Se questo non fosse il mio ultimo viaggio — disse Surgenor asciugandosi il collo — mi rifiuterei di farne altri.
— Il senso di questa affermazione mi sfugge — disse Victor Voysey. — Avrei bisogno di tempo per pensarci. — Victor era alla sua seconda missione. Teneva gli occhi fissi sui controlli del modulo d’esplorazione; il visore anteriore, da alcuni giorni ormai, non mostrava altro che sterile roccia vulcanica, in increspature regolari che si succedevano senza fine davanti ai fari del veicolo, ma Voysey non staccava gli occhi dalla scena, come un turista in crociera su un mondo esotico e affascinante.
— Avrai tutto il tempo che vuoi — disse Surgenor. — Se c’è una cosa che non ti mancherà mai in questo lavoro è il tempo di startene seduto a girare i pollici e a pensare. Soprattutto a pensare a qualche buona ragione per non licenziarti alla prima occasione… e ti assicuro che ci vuole una fantasia non indifferente.
— I soldi — disse Voysey cercando di assumere un’aria cinica.
— Ecco perché tutti quanti firmano. E restano.
— Non ne vale la pena.
— Sarò d’accordo con te quando mi sarò messo da parte un malloppo come il tuo.
Surgenor scosse la testa. — Stai facendo un terribile errore, Victor. Stai vendendo la tua vita, l’unica vita di cui disponi, per i soldi, per il privilegio di spostare di qualche elettrone la posizione nel computer di una banca. È un cattivo affare, Victor. Per quanto denaro tu metta da parte, non riuscirai mai a ricomprare questo tempo.
— Il tuo guaio, Dave, è che stai… — Voysey esitò e cercò di cambiare il giro della frase — …ti sei dimenticato cosa vuol dire avere bisogno di soldi.
— Stai invecchiando, volevi dire — disse Surgenor, ridendo. Poi decise di cambiare discorso. — Facciamo una scommessa: dieci crediti a uno che vedremo la nave dalla cima di questa collina.
— Di già? — Voysey, ignorando l’offerta, si chinò in avanti e azionò i comandi del telemetro automatico.
Surgenor, sorridendo per l’eccitazione del suo giovane collega, cercò una posizione più comoda sul sedile imbottito. Sembrava fossero passati secoli da quando la nave madre aveva fatto sbarcare i sei moduli di esplorazione al polo sud del pianeta nero, ed era sparita nel cielo come un fantasma, diretta verso il polo nord. La nave ci aveva messo meno di un’ora per arrivare. Gli uomini sui moduli avevano dovuto penare per dodici giorni, a tre G, mentre le macchine zigzagavano sulla superficie del pianeta. Se ci fosse stata un’atmosfera avrebbero potuto utilizzare la propulsione a sospensione e viaggiare due volte più in fretta; ma il pianeta, uno dei meno ospitali che Surgenor avesse mai visto, non faceva nessuna concessione ai visitatori indesiderati.
Il modulo di esplorazione raggiunse la cima della collina, e l’orizzonte, cioè la linea che separava un’oscurità stellata da un’oscurità morta, si abbassò bruscamente di fronte a loro. Surgenor vide il grappolo di luci della nave madre, la Sarafand, a circa dieci chilometri di distanza, nella pianura.
— Avevi ragione tu — disse Voysey, e Surgenor trattenne un sorriso sentendo il tono di rispetto nella sua voce. — Credo anche che saremo i primi a tornare. Non vedo nessun’altra luce.